Glauco Mauri con le sue interpretazioni e regie ha lasciato un segno nel teatro italiano.

E continua a farlo.

Mentre nel camerino del teatro Quirino – Vittorio Gassman si sta preparando per andare in scena con lo spettacolo “Delitto e castigo”, in giro da due anni per i teatri d’Italia, racconta il suo modo di intendere il lavoro dell’attore.

Il suo esordio a teatro risale al 1° gennaio 1946.

Sono nato a Pesaro: ho cominciato a fare teatro a 15 anni e 3 mesi. Nel teatrino della parrocchia di S. Agostino era in scena una commedia intitolata “La notte del vagabondo”, dramma per soli uomini. A quei tempi esistevano ancora le compagnie per soli uomini e per sole donne. Da ragazzo avevo molti pudori: ero grasso, con i denti storti e non sapevo assolutamente giocare a pallone. In seguito mi sono vendicato: sono stato l’allenatore dei ragazzini che non mi facevano partecipare. Sul palcoscenico potevo essere – sembra banale ma è proprio così – tutto quello che nella vita non mi veniva concesso. Questa possibilità mi ha incuriosito, eccitato, divertito. Con il passare del tempo, dopo essere entrato all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”, ho fatto un altro passo avanti: ho capito che il teatro può servire a qualcosa.
Come dice Bertold Brecht: “Tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte, quella del vivere”.

Ha intravisto la funzione civile del teatro.

Gli attori si truccano e attraverso la finzione teatrale parlano della realtà. Raccontiamo le favole di Fedor Dostoevskij, di Luigi Pirandello, Samuel Beckett e nel contempo parliamo della vita di tutti noi, delle nostre brutture, speranze e gioie. Questa affabulazione trasmette alla gente ricchezza, emozioni, sensazioni. È chiaro, il teatro non può lanciare dei punti esclamativi, delle verità, solo degli interrogativi, delle inquietudini. Se il pubblico in sala torna a casa con dei dubbi su cui riflettere, allora il lavoro dell’attore ha avuto un’utilità.

Per il secondo anno consecutivo propone la riduzione teatrale del romanzo “Delitto e castigo”, scritto da Fëdor Michajlovic Dostoevskij. Come mai?

Perché Dostoevskij ha influito sia sul mio modo di essere attore, che uomo. Quando avevo quattordici, quindici anni, nell’immediato dopo guerra, ho cominciato a leggere furiosamente tutti quei libri non ancora pubblicati o considerati illegali. Tra gli altri mi sono imbattuto nell’universo del romanziere russo. Ne sono rimasto profondamente impressionato, in particolare da una frase presente ne “I fratelli Karamazov”. Dimitri dice al fratello Alioscia: “Il diavolo e dio sono sempre in lotta tra loro, e il loro campo di battaglia è il cuore dell’uomo”.

Questa espressione è presente nella sua trasposizione di “Delitto e castigo”.

Non ho potuto evitarlo: è perfetta. Sin dalla prima lettura ho avuto la sensazione che Dostoevskij, come poi tutti i grandi, non abbia mai guidicato l’uomo. Al contrario: desiderava comprenderlo con enorme, tenera pietà. L’uomo vive una lotta quotidiana tra il bene e il male; solo dentro questa battaglia la vita è degna di essere vissuta. Tra l’altro “Delitto e castigo” è uno di quei testi in cui il problema della comprensione dell’uomo è alla base.

Il romanzo descrive le angosce e i turbamenti di un giovane studente pietroburghese, Rodion, che uccide un’usuraia per dimostrare di essere un uomo. Cosa l’ha attratta?

Mi ha intrigato il modo come l’assassino viene aiutato a costituirsi, a togliersi questo fardello di dosso. Gli artefici della conversione sono due. Una è Sonya (Cristina Arnone), una prostituta, che rappresenta l’amore e insieme la via religiosa; l’altro è il giudice istruttore Porfirij (interpretato da Mauri, nrd). Un uomo all’apparenza grottesco, che alla fine si scopre di una grande umanità: il giudice tenta, usando persino le stesse frasi di Sonya, di far costituire Rodion attraverso la via laica, propria dell’uomo che ha il dovere di comprendere i suoi simili.

Dostoevskij ha influenzato la sua visione filosofica della vita?

Senza dubbio. C’è un’altra frase che trovo emblematica. È stata scritta da Dostoevskij al fratello, quando il romanziere aveva solo diciotto anni: “L’uomo è un mistero difficile da risolvere. Io voglio cercare di comprendere questo mistero perché voglio essere un uomo”. Era il 1839. Evidentemente l’autore de “L’idiota” aveva già intuito che avrebbe dedicato vita e arte a cercare di scavare nelle oscurità dell’essere umano. Questa urgenza di capire senza mai giudicare mi è rimasta come monito. Nonostante abbia più di settant’anni, ho deciso con pudore e rispetto di realizzare a teatro “Delitto e castigo”, per far capire al pubblico in sala che dobbiamo cercare “di parlare, di comprenderci, nel bene e nel male”.

Dal 1946 al 2006. Cosa è cambiato a teatro da quando ha iniziato?

Nulla. Rispetto a quando ho iniziato, c’è persino più lavoro per i giovani, nonostante l’enorme confusione. Ai miei tempi non si poteva scegliere tra fiction, teatro, cinema, tv, radio e doppiaggio. Negli anni Quaranta o facevi teatro, con una grinta luminosa, o niente. Nel terzo millennio ci sono molti ragazzi al lavoro. Inoltre, durante la grande avanguardia, per esempio con Carmelo Bene, gli artisti mettevano a disposizione la loro genialità, la tecnica per allestire uno spettacolo tratto da un classico. Le nuove leve si scrivono testi che parlano della vita, dei loro problemi. Magari sono opere non riuscite completamente, ma mostrano vitalità.

Ha interpretato tutti i capolavori shakespeariani; ha lavorato con i massimi nomi del teatro italiano come Renzo Ricci, Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Franco Enriquez, Valeria Moriconi, Mario Scaccia e tanti altri. La sua bravura è riconosciuta all’estero. Ha mai avuto paura di salire sul palcoscenico?

Mai. Posso essere agitato, teso, ma in maniera gioiosa, mai lugubre. Alcuni colleghi raccontano di notti insonni, di palpitazioni. Nonostante sia un interprete caldo non vivo queste dinamiche, riesco a controllare l’emozione.

Come mai ha deciso, nel 1981, di formare una compagnia teatrale, la Mauri – Sturno?

Per molti anni sono stato un cavallo condor. Si tratta di una razza di cavalli tedeschi usata per il trasporto delle merci. Lo sono stato per vari teatri stabili. Poi a 51 anni mi sono reso conto, nonostante ricevessi molte scritture, che volevo avere l’ultima parola sui testi, sul lavoro svolto. Ho pensato fosse il momento di correre da solo, piuttosto che dare la volata agli altri.

Il sodalizio con Roberto Sturno è nato per caso?

Roberto, molto più giovane, aveva già lavorato con me e Valeria Moriconi nel “La Bisbetica Domata”. Ho trovato in lui le qualità che cercavo. Con il passare del tempo è nata un’amicizia. Per molti anni è stato mio figlio; ora io sono suo figlio. I suoi bambini sono i miei nipoti d’amore. È nato un legamene straordinario, in cui lui porta un contributo di giovinezza, freschezza, organizzazione fondamentale. Insieme scegliamo testi che ci permettono di fare spettacolo, visto che il teatro deve essere prima di tutto emozione. Non può mancare il divertimento, che sia attraverso le lacrime o con una risata poco importa. Nel contempo tentiamo di proporre testi che aiutino qualcuno ad uscire da teatro più ricco di come entrato.

Cosa crede manchi alle nuove leve?

Partiamo dall’assunto che il teatro sta alla vita come il vino sta all’uva. Il palcoscenico è l’essenza della vita: quando si recita bisogna essere semplici, senza mai interpretare la semplicità della vita, altrimenti il pubblico verrebbe a bere una camomilla! A teatro la semplicità è costruita, senza però determinare una costruzione geometrica e fredda. In altre parole alla base di un buon attore c’è la tecnica. Ed è quello che manca ai giovani. Non riescono ad acquisirla perché costretti ad arrivare al successo il prima possibile. Il ricambio è ingiustificato… Sono stato fortunato: ho iniziato dalla buca del suggeritore, ho lavorato con i più grandi attori, studiandoli in quinta. Questa è la vera scuola. Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio, Gino Cervi, Salvo Randone, Anna Proclemer… Osservarli recitare, scoprire come di sera in sera riuscissero a trasformare l’interpretazione restando sempre fedeli al personaggio è stato incredibile. Manca la gavetta”.

Nel suo curriculum ci sono poche interpretazioni cinematografiche. Ha recitato in “Profondo Rosso” di Dario Argento (1975); in “Ecce Bombo” diretto da Nanni Moretti (1978); con Marco Belloccio ne“La Cina è vicina” del 1967; “L’ospite” diretto da Liliana Cavani (1971). Tutti registi significativi.

Devo ammettere di non averlo mai cercato. E quando è stato lui a farlo, spesso l’ho rifiutato. Il cinema non mi ha mai divertito. Non ti senti libero come a teatro, non c’è la ginnastica della mente e del cuore. Quando il sipario viene tirato, il pubblico lo si deve catturare; al cinema è la macchina da presa, il regista che ti cattura. È un lavoro troppo frammentario. Preferisco continuare a scommettere.

Scommettere su cosa?

Sulle tavole del palcoscenico. Oggi come oggi la vera avanguardia è fare teatro nel modo giusto. Sul palco un fiore finto è più bello di uno vero. La poesia è diversa da quella creata con la tecnologia. Il pubblico deve tornare bambino e credere che ciò che sta accadendo sia vero. Il cinema posso vederlo in una sala bella, brutta, comoda, scomoda, piena di gente o meno. Lo spettacolo rimane sempre lo stesso. In teatro mai. Ogni sera, a seconda del pubblico presente in sala, la recitazione cambia. Il pubblico ha lo spettacolo che si merita.

I suoi maestri teatrali?

Orazio Costa e Memo Benassi. Da Costa ho appreso che la tecnica, il rigore non sono un handicap alla fantasia, anzi. Aiutano ad esprimere l’umanità dei personaggi. Benassi, invece, mi ha illuminato riguardo la pazzia, l’imprevedibilità. Spesso, quando sono in scena, intuisco cosa farà l’attore davanti a me: va lungo, prende fiato, si ferma. Invece poi mi sorprende e fa una corsa. La pazzia significa andare contro le regole. La pazzia è il grottesco. Io penso che il vero modo di rappresentare la vita sia il grottesco: non è né dramma né comica, ma l’impasto tra la lacrima e lo sberleffo.