Dunque il boicottaggio à la page del momento è non andare a vedere il nuovo film di Roman Polanski “J’Accuse” (mi rifiuto di scrivere il titolo italiano). Motivo, l’accusa di una fotografa francese di essere stata stuprata dal regista. Accusa che si somma a molte altre, tra cui la più conosciuta, quella della minorenne, per cui c’è stato un processo e una condanna negli Stati uniti d’America, nonché numerose richieste di estradizione.

Sembrerebbe un problema sottile quello della scissione tra morale (legge) e arte.

Invece, diciamolo una vota per tutte, non lo è: sono piani distinti, non relazionabili, parallele che non si toccano mai, nemmeno all’infinito.

Una cosa è la giustizia un’altra e l’arte. Se si ammira il terribile Caravaggio del periodo napoletano, non si sta accettando l’omicidio di un ragazzo per futili motivi; se si leggono gli “Scritti corsari” di Pasolini, non si sta valutando l’incoerenza tra il suo attacco alla società borghese e l’uso del denaro (simbolo per eccellenza di quella società) per procurarsi amore (minorenne) mercenario; se si rimane basiti di fronte alla potenza del De Bello Gallico, non si prende posizione su una guerra d’invasione.

Sono due piani differenti: posso disprezzare la vita privata di Joyce ed esserne il più grande e appassionato lettore.

Questo non vuol dire come per il caso di Cesare Battisti o dello stesso Polanski, sostenerne l’innocenza con dei ridicoli appelli-manifesti firmati da intellettuali, per bieca convenienza culturale. Vuol dire semplicemente che l’arte va giudicata con parametri artistici e la vita attraverso le leggi.

Se scrivi bene e razzoli male, io leggerò il tuo libro, lo amerò e al contempo mi batterò perché tu risponda del tuo operato. Perché l’arte è al di fuori della legge, l’artista no.

Per inciso, che riteniate Roman Polanski colpevole o innocente, “J’accuse” è un grandissimo film.