La febbre è un film particolarmente curato sia dal punto di vista visivo che artistico, del cast. E’ un film dalla evidente valenza politica sottolineata dalla presenza del personaggio del Presidente della Repubblica (Arnoldo Foà)
(Alessandro D’Alatri) Il Presidente della Repubblica è stato l’artefice di questo film in un certo qual modo, Tre anni fa andai al Quirinale come candidato dei David di Donatello con Casomai e il Presidente fece un bel discorso sull’orgoglio, sulla voglia di rimettersi in gioco in questo paese, Oggi la politica nel cinema è vista come un atto d’accusa verso qualcuno. Io invece preferisco chi fa le cose a favore piuttosto che contro e quindi l’idea di veder una propositività nel mondo della politica è una cosa che auspico sia nel cinema che nel mondo della realtà. Ecco il perchè della figura del Presidente.
Sul piano visivo il film è sicuramente più elaborato dei precedenti. L’uso della tecnologia è finalizzato ad una reinterpretazione della realtà anche a fini spettacolari – il cinema deve essere anche spettacolo – mentre è compito della televisione trattare la realtà in maniera più documentaria.
Una delle accuse più frequenti al cinema italiano è la mancanza di bravi attori. Cosa ne pensa?
(Alessandro D’Alatri) Non ho mai fatto nella mia carriera dei cast furbi. Credo che sia una cosa ignobile. Iin Italia ci sono veri talenti, buoni attori. Manca spesso il coraggio di utilizzarli in un contesto industriale. Per quanto mi riguarda, in questo film ci sono degli esordi straordinari come Massimo Bagliani, 47 anni un attore dal curriculum teatrale di tutto rispetto al suo primo film, Vittorio Franceschi, drammaturgo ed attore, chi va a teatro lo conosce benissimo ma è al suo terzo film ed ha superato i 60 anni, Gisella (Burinato) che ha un curriculum favoloso ha fatto pochi film anche lei. Si parla spesso dei giovani attori, ma ci sono anche attori maturi che non vengono utilizzati nel cinema. Quelli come Vittorio Franceschi in america diventano come Joe Pesci, qui da noi fanno tre film in sessant’anni. Questo è il problema, mancanza di coraggio. I talenti ci sono, bisogna saperli sceglierli, utilizzarli e farsi carico anche dei rischi che comportano.
Tematiche come questa di una società che ti impedisce di realizzare i sogni, che ti rende frustrato e così via ne abbiamo già visti diversi al grido “la società è così, cambiamola.” Lei nel suo film afferma “la vita è così, cambiamola”. Vi è una differenza importante di prospettiva.
(Alessandro D’Altri) E’ impossibile non fare cinema politico, perché tutto quello che si fa come espressione è in un qualche modo un atto politico. Il problema vero è che oggi la politica non si occupa più dei fatti veri della gente. Si parla dei massimi sistemi e non delle cose concrete tipo l’asilo nido, il traffico, il lavoro. Abbiamo vissuto negli ultimi tempi ad una cosa meravigliosa: il crollo delle ideologie. Un vero miracolo che bisogna capire, comprendere ed in un certo senso anche cavalcare. Le ideologie sono innaturali. E’ finita l’era dei maestri, inizia quella dei testimoni (citazione dall’enciclica Popolorum Progressio di Paolo VI [NdR]). Credo che tutti siano oggi chiamati ad essere testimoni ed a riconoscere testimonianza. Oggi fare cinema significa tornare ad essere cittadini, sporcarsi le mani con la realtà e prendersi il disturbo di vivere. Noi siamo un paese dalla tradizione straordinaria in tutte le arti, in tutte le opere dell’ingegno, siamo studiati in tutto il mondo, i grandi marchi italiani, il cinema stesso. Eppure abbiamo paura di rivendicare le nostre capacità.
Oggi per esempio non ascoltiamo più i poeti. Sono persone queste che non fanno spreco di parola. La poesia è bella perché è muscolare, tonica. Un aggettivo è un aggettivo, una virgola è una virgola, dà dei concetti precisi. Se ascoltassimo di più i poeti la società sarebbe migliore. Nel film ho tentato di parlare di impegno, di poesia, all’interno di un film che deve essere anche entertainment. Ed ecco l’uso delle tecnologie. Gli effetti speciali sono curati da ragazzi che hanno lavorato nel cinema americano (Batman, The Cell, Fight Club) e che con enormi sacrifici e con un vero atto d’amore si sono dedicati a questo film, che altrimenti non sarebbe stato possibile realizzare per limiti di budget.
Oggi in Italia non si pensa più in grande. Nel film il sogno del protagonista è molto semplice se vogliamo, aprire un locale.
(Alessandro D’Altri) Oggi poter realizzare il proprio sogno significa passare sotto una serie di forche caudine. Viviamo in una realtà del dopo, dell’attesa. Adesso sto male però dopo… è la logica di Faoni (personaggio del film [NdR]); siamo stati crudeli con lui che aspetta tutta la vita ed il giorno dopo la pensione muore. Ma è così; non c’è il dopo c’è l’adesso. Se abbiamo un sogno, un desiderio perché aspettare a realizzarlo. Ho letto un libro bellissimo su un signore Giovanni Borghi, Mister Ignis, una persona che ha riempito le case degli italiani di elettrodomestici ma nello stesso tempo ha portato in Italia la pallacanestro, il ciclismo, il pugilato. Bisogna tornare ad essere imprenditori di se stessi. Tutti abbiamo in Italia due lavori: uno che non ci piace ma ci mantiene ed uno che ci piace. Ma perché non fare subito e direttamente quello che più ci piace?
Fabio Volo, chi è Mario, il personaggi che interpreti nel film?
(Fabio Volo) Quando ho letto la sceneggiatura parecchio tempo fa in viaggio per Miami a presentare Casomai, vi ho ritrovato in parte la mia storia e quella dei miei amici – io sono della provincia di Brescia che è del tutto simile a quella di Cremona in cui è ambientato il film -. Mario è un ragazzo che ad un certo punto decide di non piacere. Colleghi. Amici, familiari vorrebbero che fossimo in un certo modo (lo studio, il lavoro, la ragazza) e tu cerchi di assecondare le loro richieste per farti accettare. Chi accetta questo diventa ad un certo punto spettatore di una vita costruita da altri. Ma per essere accettati dagli altri bisogna prima accettare se stessi. La felicità personale dovrebbe arrivare prima di quella degli altri. Essere felice significa donare alla propria famiglia un figlio felice, alla propria moglie un marito felice e così via. Se uno riesce a prendere luce da se stesso poi di riflesso cade un po’ su tutto.
Quale sono state le sensazioni a tornare a lavorare sul set con D’Alatri dopo il primo film – Casomai – che fu un vero e proprio salto nel vuoto per te.
(Fabio Volo) Questo per me è un lavoro meraviglioso. Potendolo fare farei un film al giorno. Per il mio ego vedere il mio faccione 6 metri per 3 è fantastico. Inoltre si crea una sorta di famiglia: i primi giorni non conosci nessuno dopo 2 settimane conosci tutti, dopo 4 li vorresti uccidere perché non li sopporti più; ognuno con i suoi tempi, con le sue cose. Io non mi considero un attore; mi piace il cinema e non vorrei offenderlo più di tanto; da una parte sono contento di fare questo film dall’altra mi dispiace perché è segno che vi è una grossa crisi del cinema italiano… (risate ed applauso della sala [NdR]). Io mi impegno e spero che se ci sarà l’opportunità di fare altri film diventi un po’ più bravo, ma per tutti non solo per me. E’ bello andare al cinema a vedere uno bravo, no?
Il personaggio che più mi ha colpito nel film è quello di Bicio. Come nasce?
(Alessandro D’Altri) Il nome è tratto da un vero Bicio, un personaggio che conosco e che vive in quel modo. Credo che rappresenti quel sano distacco dal disordine del quotidiano. Quando l’ho costruito mi piaceva avere qualcuno che fosse al di fuori dal cuore ed al di là delle ideologie. Non è un anarchico, è oltre, è un essere umano. Una persona che ha dei valori, che vive con il coraggio dell’impopolarità, della scomodità e merita uno spazio. Una persone che guardano la vita a testa alta, e ce ne sono nel mondo reale, ce ne sono.
L’Italia da che tipo di febbre è debilitata?
(Alessandro D’Altri) In Italia l’industria cinematografica è industria di Stato. Il cinema lo produce lo Stato, ma dove sta scritto, questo è comunismo. E’ il comunismo che è azienda, lo Stato. Io voglio invece leggi per poter giocare liberamente in uno stato democratico, per poter andare in una banca e poter prendere un finanziamento, per avere una fiscalizzazione se un imprenditore vuole investire nel mio film, o nella mia opera o nel mio balletto o qualunque cosa io voglia fare.
Tutti parliamo di riforma del cinema: io voglio una riforma che dia libertà agli imprenditori di fare cinema, di fare arte. Ed i pittori? Tutti all’estero, vanno a Madrid, a Barcellona. Ma perché? E gli scrittori? I Poeti? Gli scultori? Il balletto è morto in Italia. I Momix da noi non ci sono. Perché? Eppure c’è gente in Italia che studia, che soffre, che fatica e non riesce a farlo. La dittatura di un paese comunista in un paese democratico non la voglio. Non è vero che siamo tutti uguali. Ma chi lo ha detto? Lo dice il comunismo, ma non è vero. Ci sono dei valori, dei talenti e bisogna dare la possibilità a questi di emergere. Io vedo continuamente gente che fa ma non produce. Come è possibile questo? Diamo l’opportunità a chi vuole investire, a chi vuole rischiare a farlo. Questo non c’è. Diamoci una legge che consenta ad un industriale, ad un signor Rana di mettere i suoi soldi nel mio film. Spielberg ha fatto il suo primo film, Duel, con i soldi dell’associazione dei dentisti americani. Così si fa il cinema, in tutto il mondo. Quando in Italia c’erano i veri imprenditori De Laurentiis, Ponti si faceva del grande cinema, perché la gente metteva le mani in tasca e se voleva fare una cosa la faceva. Infatti se ne sono andati tutti in America. Bisogna ritrovare la fiducia, il coraggio a rischiare. Oggi i produttori fanno cinema senza rischiare; un po’ di soldi glieli da la Rai, un po’ lo Stato, un po’ di qua, un po’ di la, fanno il pacchettino e via. Il commerciante quando apre la sua bottega si fa carico di un rischio. Ciò che non vende gli rimane sul groppone. Non vi può essere competizione senza rischio.
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