Una domenica di aprile. La primavera appena sbocciata. Gonnelline, muscoli, i carnai e l’orrido mare a portata di mano. Roma si svuota.
Ma i magnifici sette restano in cittàa difendere l’onore del cinema. Ore 16,30 al Filmstudio (storica sala d’essai dietro il carcere di Regina Coeli), proiettano “Karamazovi” (“I fratelli Karamazov”). In platea sono in sette: una coppia matura, tre single (due maschi e una femmina) e, intrufolatisi all’ultimo momento, due fidanzatini. Aleggia un po’ di tensione. Si teme il mattone. Sin dalle prime scene però i dubbi si dissolvono: il film è strepitoso e tanto basta. Gli attori perfetti, forti, intensi; la regia nervosa ma fluida rende leggero lo sviluppo narrativo; la musica una lama di rasoio. Un’ora e cinquanta minuti tosti, incalzanti, avvincenti.
È Dostoevskij: l’anima è fatta a pezzi, il bene e il male si mescolano, dio esiste ma è cattivo e spietato. Teatro, cinema, letteratura, politica e sentimento si fondono in questo piccolo grande film di Petr Zelenka. Ma la sala è vuota. Dove sono tutti i fighetti del Festival di Cinema di Roma? Dove tutti gli amanti del cinema che si scaricano i film sul computer? E quelli che occupano i luoghi pubblici in nome della cultura? Dove stanno, a mangiare il cocomero? Ma non è ancora tempo, sono acerbi!
I magnifici sette escono dalla sala dopo essersi spillati fino all’ultimo titolo di coda. L’onore è salvo anche se la battaglia è persa: i cinema presto chiuderanno tutti. Ma almeno loro sono diventati più ricchi.
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