«Un film scritto bene» è la frase che denota subito chi l’ha pronunciato come:

A – critico a 500 euro al mese che campa di apericene a scrocco,  vede serie televisive ed è capace solo di copiare le trame delle cartelle stampa

B – sceneggiatore a cui non hanno mai accettato una sceneggiatura

C – moglie di un produttore che non capisce una mazza di cinema, ma si difende nei salotti ripetendo frasi fatte.

Questo ci introduce al tema di oggi: la scrittura nel cinema. Nella sua accezione letterale è la potenza della parola dentro al film. In senso stretto esistono i film di dialogo e consiglio a tutti per comprendere cosa vuol dire sapere scrivere per il cinema di riguardarsi “Il gufo e la gattina”, una commedia anni ‘70 sottovalutata (regia di Herbert Ross, tratto dall’opera teatrale di Bill Manhoff). Perfetta, brillante, comica, irresistibile, trasgressiva, giocata esclusivamente sulla parola (e sulla bravura degli attori).

Esiste anche la scrittura come costruzione e all’interno di questo la semantica come pilastro narrativo. E mi spiego prendendo come spunto il trailer del film “Third Person” di Paul Haggis, che è incastonato tra la battuta iniziale di una donna: «Come fai ad amarmi? Ti tratto sempre male!» e la battuta finale sull’uomo che dice: «Ha un disperato bisogno di amore. Finché non lo ottiene».

Volutamente non sono preciso, perchè non ha importanza chi siano i personaggi, non è necessario conoscere la trama, non ce ne importa nulla di come andrà finire. È la forza di due frasi che racchiudono il film e ci danno l’esatta percezione di quello che andremo a vedere. I contrasti, le tensioni, le pulsioni irresistibili, la tenerezza, l’istinto della fuga, la paura della solitudine, il senso di appartenenza, il possesso, il tradimento preventivo, l’autodistruzione, il rapporto di potere, la vita, la morte, l’appagamento totale: in una parola l’amore.