Da tre settimane è protagonista al Teatro Dell’Angelo di Roma con il fortunato spettacolo The Carnage – I cannibali, dopo il successo durante la scorsa stagione teatrale. Lo abbiamo incontrato per raccontarci uno spettacolo che non lascia comunque indifferenti, in un mix seducente di violenza e risate.
Ha debuttato il 4 maggio al teatro dell’Angelo di Roma, dove rimarrà fino al 21 del mese The Carnage. Testo, regia e protagonista Max Caprara. Ci racconti la genesi del testo?
Il testo nasce da un’idea relativa ai rapporti interpersonali connessi con una situazione macrosociale, dal particolare all’universale, dalla politica spicciola di un rapporto di coppia a quello che sappiamo e vediamo a livello internazionale tutto è basato su un criterio consumistico non più intellettivo né sentimentale ma di pancia. I cannibali come sottotitolo marcano per l’appunto l’idea che noi tendiamo a divorare, dopo avere divorato noi stessi, anche gli altri. Incollando discorsi, luoghi comuni, circonlocuzioni, frasi fatte che ho sentito dire in tanto tempo in diversi luoghi dalle persone più disparate sono arrivato a un tessuto drammaturgico che rende perfettamente l’idea da una parte dello squallore e dall’altra dell’inquietudine che cova dentro la nostra società che mira a difendersi dall’altro, dal diverso, dall’immigrato; gli stessi valori su cui questa si dovrebbe basare non esistono o se esistono sono sbagliati, marci, putridi in quanto consumati e privi di significato.
Il titolo ricorda la pellicola di Polansky tratto dall’opera teatrale Il dio del massacro della drammaturga e scrittrice francese Yasmina Reza. A parte il criceto, punti di contatto e differenze rispetto al testo della Reza?
Il titolo ricorda il film di Polanski come il criceto presente nel film, dove aveva un ruolo molto marginale e legato ad uno dei protagonisti; nel nostro caso il criceto è lui stesso un protagonista con tutta una sua ricorrenza. Altra cosa che può accomunare è il semplice fatto che due coppie si ritrovano una nella casa dell’altra. Tutto qua.
Le corrispondenze sono troppo tenui per parlare di similitudini. Non mi sono ispirato nè al testo nè al film che pure considero un capolavoro. Semplicemente mi piaceva il termine “The Carnage” perché rendeva bene il senso del massacro, dell’autoeliminazione; mi piaceva questo senso granguignolesco ma per evitare fraintendimenti ho aggiunto il secondo titolo I Cannibali che spiega questo fagocitamento su cui noi basiamo i nostri rapporti di pancia. Carnage, massacro o cannibalismo, rende dunque l’idea di qualcosa di organico, di una violenza interna che resta nel mio testo molto forte e quando decide di venire fuori, violento come fulmini, rompe la corteccia della commedia. MI piace ricordare che “The Carnage – I Cannibali” è una commedia già andata in scena l’anno scorso riscuotendo un successo lusinghiero in particolare per la sua capacità di far ridere il pubblico, di coinvolgerlo perché rimane comunque una commedia a tratti particolarmente comica.
Cinema, teatro e letteratura: il cibo come attività conviviale che spinge ad abbassare le difese ed a lasciarsi andare forse oltre le proprie intenzioni. Lo insegna anche la prossima uscita cinematografica di The Dinner, tratto dal romanzo di Herman Koch.
Dalla cena delle beffe a quella dei cretini, passano da Ruzante come per le esibizioni conviviali nelle ville rinascimentali venete fino alla concezione dello spettacolo come accompagnatore del pasto, è evidente che le relazioni tra la gastronomia e l’intrattenimento musicale o teatrale sono storiche, millenarie direi, e quindi il paragone è una porta completamente aperta. Indubbiamente il discorso del pasto, del cibare, è anche un discorso che da una parte può essere esistenziale e dall’altra è anche strutturale, perché digerire un testo, digerire uno spettacolo, fagocitare delle persone o ingurgitare un’idea o un’ideologia sono tutte metafore che passano per un’ osmosi interno-esterno. La stessa cultura evidentemente va prima di tutto imparata, quindi compresa e racchiusa dentro di noi prima ancora di essere diffusa. Il teatro in quanto tale, l’attore di “cultura”, dovrebbe essere in questo senso un oggetto commestibile.
Oltre che autore del testo, sei anche regista e protagonista. Ci puoi raccontare il tuo rapporto con i compagni di lavoro e che lavoro hai fatto dal punto di vista registico?
Il rapporto di lavoro con i miei colleghi, essendo oltre che autore, regista e anche attore è un rapporto di collegialità, nel senso che sono un attore tra gli attori, con una regia che imposto dall’interno della compagnia stessa e non come osservatore esterno che imposta il lavoro dei colleghi. Come autore questa cosa avvantaggia un po’ tutti, a partire da me-regista potendo in ogni momento trovare delle soluzioni, spiegare agli attori dei passaggi senza doverli reinterpretare. Aggiungo che anche quando ho messo in scena dei testi non miei non ho mai voluto sovrappormi come regista al testo ma ho sempre cercato di mettere in scena esattamente quello che questo mi suggeriva senza filtrarlo attraverso il mio gusto personale, senza riletture, senza stravolgimenti. Credo che il miglior regista sia quello che non si vede, come diceva Gordon Craig, e quindi a maggior ragione posso applicarlo evidentemente in un testo mio.
Il mio triplice ruolo di autore-regista-attore mi ha portato ad essere presente in ogni fase della lavorazione dello spettacolo e molto vicino ad ogni componente artistica e non della compagnia in un lavoro di fusione tra le parti. Probabilmente il termine più giusto per definire il mio ruolo in questo spettacolo è quello di “capocomico”.
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