Sorelle mai
id.
Regia
Marco Bellocchio
Sceneggiatura
Marco Bellocchio
Fotografia
Marco Sgorbati, Gianpaolo Conti
Montaggio

Francesca Calvelli

Scenografia
G. Maria Sforza Fogliari
Costumi
Daria Clavelli
Musica
Carlo Crivelli, Enrico Pesce
Interpreti

Piergiorgio Bellocchio, Donatella Finocchiaro, Gianni Schicchi, Alba Rohrwacher, Elena Bellocchio

Produzione
Irma Misantoni, Kavac, Provincia di Piacenza, Comune di Bobbio, Rai Cinema
Anno
2010
Nazione
Italia
Genere
drammatico
Durata

110'

Distribuzione
Teodora Film
Uscita
26-03-2011
Giudizio
Media

Da più di dieci anni, ogni estate Marco Bellocchio dirige nella sua Bobbio un laboratorio di formazione cinematografica che prende il nome di Fare Cinema. Dal frammentario lavoro di sei edizioni, il regista ha tratto questa coraggiosa ed ispirata vicenda ambientata quasi per intero dentro e intorno alla casa delle anziane zie che danno il titolo al film.
Giorgio (Piergiorgio Bellocchio) e Sara (Donatella Finocchiaro) sono i due tormentati fratelli che, nonostante le nevrosi artistiche e personali e le pulsioni centrifughe, ciclicamente sono richiamati indietro verso la terra delle origini e dei ricordi d'infanzia. Quando Sara decide di vendere il proprio appartamento per acquistarne uno più grande a Milano, al fine di trasferirvisi con la figlia Elena (Elena Bellocchio), finora accudita in paese dalle zie e dall'amico di famiglia Gianni (Gianni Schicchi), il legame con le radici e tra gli stessi fratelli, piuttosto che indebolirsi ne uscirà semmai modificato e arricchito.
La tendenza di altre opere di Bellocchio a guardare indietro (al Fascismo, agli anni di Piombo) per capire l'oggi, trova qui una rappresentazione sincretica. I due fratelli, aspiranti attori, inconcludenti a livello personale, lui in coppia e lei come madre, entrano ed escono di scena sotto gli occhi saggi e inesorabili delle zie e di Gianni, come quelli innocenti e via via più smaliziati della bambina. La generazione dei trenta-quarantenni ne esce lacerata, priva di obiettivi concreti e insofferente verso qualsiasi tipo di costrizione ambientale, col solo risultato di allontanarsi troppo da quel vivere e sentire “semplice” rappresentato dai più anziani.
In questo bizzarro Heimat, autobiografico e interpretato da familiari dello stesso regista nei ruoli chiave, gli episodi non hanno uno svolgimento lineare e continuo, ostacolando il coinvolgimento dello spettatore. Proprio per la natura estemporanea del laboratorio, il documentarismo con telecamera digitale si alterna agli inserti onirici, senza mai perdere di vista la cifra stilistica di Bellocchio. Tale apparente osticità gli si può perdonare perchè ciò che qui interessa non è la narrazione di una saga familiare, ma gli effetti reali e non cinematograficamente ricostruiti che il Tempo provoca sulle persone, che suggestivamente crescono, si modificano e invecchiano insieme ai luoghi col passare degli anni.
Colpisce il fatto che Bellocchio, giunto ai 70 anni, per parlare dell'oggi scelga di tornare nell'Italia abbandonata delle campagne padane (quella della sua opera prima, “I pugni in tasca”) come Ermanno Olmi, altro gigante del nostro cinema dedicatosi alla testimonianza dei valori che la modernità sta facendo scomparire, dopo un percorso ideologico e artistico completamente differente.
[emiliano duroni]