Saw VI
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Regia
Kevin Greutert
Sceneggiatura
Marcus Dunstan, Patrick Melton
Fotografia
David A. Armstrong
Montaggio
Andrew Coutts
Scenografia
Anthony A. Ianni
Costumi
Alex Kavanagh
Musica
Charlie Clouser
Interpreti
Tobin Bell, Costas Mandylor, Mark Rolston, Betsy Russell, Shawnee Smith
Produzione
Twisted Pictures, A Bigger Boat
Anno
2010
Nazione
USA, Canada, UK, Australia
Genere
horror
Durata
90'
Distribuzione
01 Distribution
Uscita
01-06-2010
Giudizio
Media

La saga di Saw è arrivata al sesto capitolo. Una saga che ha battuto tutti i record di incassi, una macchina macina soldi che nel tempo ha fatto sempre a meno dello spunto iniziale, indovinare quale sarà la prossima tortura dell’Enigmista, per concentrarsi di più sull’effetto splatter e sull’esposizione claustrofobica e ossessiva di arti e membra spappolate, di organi interni e litri di sangue, con gran goduria degli appassionati del genere che fanno il tifo per il mostro, sorta di angelo sterminatore dei peccati della società capitalista e molto meno per le vittime colpevoli di peccati morali più che fisici.
Il meccanismo è assolutamente semplice nella sua essenziale scarnificazione. E se si fossero perse le ultime puntate, attraverso inserti e flashback che spezzano una sequenza truculenta dall’altra, ci pensa il montaggio a fornirci tutti gli indizi sui motivi che stanno dietro a questa sete di sangue. Le spiegazioni etiche in un horror rasentano il ridicolo, ma qui vanno ben oltre. Non c’è limite alla psicologia da strapazzo degli sceneggiatori che cercano di riempire lo spazio tra un massacro e l’altro. L’unico colpo di scena viene risolto nei primi minuti del film. Chi è dietro a questa carneficina è in realtà colui che dovrebbe sventare i piani criminali del serial killer. E dopo un’ora sarà lo stesso detective a sbarazzarsi di due colleghi che volevano ficcare il naso in affari che non li riguardavano. E così il quadro da fumetto è completo e possiamo tranquillamente assistere alle morti che si susseguono una dietro l’altra senza preoccuparci di capirci alcunché.
Puro voyeurismo ma ha senso domandarsi sulla natura di questo spettacolo in un’epoca in cui si è passati dall’etica all’estetica senza troppi sacrifici di sostanza? Saw soddisfa tutto questo e a tratti ci riesce pure bene. L’eccesso è tale che non c’è più bisogno di scandalizzarsi ma semmai si chiede al film di osare ancora di più, di essere sempre più trash e di scavalcare i limiti di pruderie che gli autori si ingegnano in qualche modo a disseminare nei personaggi.
L’ambientazione è un labirinto carcerario, probabilmente qualche vecchia fabbrica dismessa, e un rumore infernale costante per quasi due ore ci dimostra che siamo metaforicamente dentro l’immagine mentale del pazzo assassino piuttosto che dentro un luogo fisico e reale. La trama è presto detta. L’Enigmista è morto nell’ultimo capitolo e il poliziotto che gli dava la caccia, affascinato dalla sua preda, aspira a diventarne l’erede ma deve vedersela con la vedova che non ha nessuna intenzione di chiudere qui la faccenda. Chi ha negato l’assistenza sanitaria al vecchio milionario che passava le sue giornate ad architettare piani diabolici per le sue vittime, è un rampante direttore di un’agenzia assicurativa che ogni giorno decide chi meriti o meno la vita. In pratica grazie a un team di ragazzi più avvelenati di lui, calcola le probabilità che un cliente possa contrarre malattie letali. In base a una squallida equazione matematica, viene garantita o meno la copertura assicurativa. Questo sistema su cui si basa il cinico sistema sanitario americano, invidiato in tutto il mondo, è uno degli aspetti perversi della democrazia. Per contrappasso colui che prende la missione di continuare l’opera dell’enigmista, in base al suo testamento, rapisce e sequestra l’assicuratore e lo costringe a un percorso di autoanalisi del proprio comportamento immorale calandolo nel gioco più splatter che possa immaginare.
Non c’è limite alla fantasia di chi vuole divertirsi con i tuoi organi e così la vittima disegnata scena dopo scena si ritrova a compiere una scelta tra se stesso e altre vittime. Conoscenti, parenti, colleghi e altri personaggi più colpevoli di lui rinchiusi in gabbie, incatenati a macchine infernali che possono da un momento all’altro strapparti le budella o farti schizzare il cervello. Questa galleria degli orrori si dispiega davanti ai nostri occhi provocando una nausea e un senso di disgusto a cui ci si abitua in una noia totale. Non c’è differenza tra una sequenza e l’altra, e non c’è differenza tra un film elaborato in questa maniera e un videogame “sparatutto” in cui ci si identifica con chi imbraccia un’arma e deve cavarsela tra mille insidie sempre più violente. Anzi in un videogame l’identificazione è più immediata e provoca effetti più adrenalinici. Nello spettacolo cinematografico tutto questo resta al di qua e non stupisce più di tanto. La capacità di immaginazione dello spettatore a quel punto è più potente e più rapida di quanto possa costruire l’autore di questi congegni e dispositivi assurdi. Permettere allo spettatore tutto questo è molto rischioso come aveva già teorizzato Hitchcock che infatti dava il minimo di informazioni per poterlo meglio ingannare senza dare mai l’impressione di essere sleale
. [matteo cafiero]