Il mio amico Eric
Looking For Eric
Regia
Ken Loach
Sceneggiatura
Paul Laverty
Fotografia
Barry Ackroyd
Montaggio
Jonathan Morris
Scenografia
Fergus Clegg
Costumi
Sarah Ryan
Musica
George Fenton
Interpreti
Steve Evets, Eric Cantona, Stephanie Bishop, Gerard Kearns,
Stefan Gumbs, Lucy-Jo Hudson, John Henshaw
Produzione
Canto Bros. Productions, Sixteen Films, Why Not Productions, Wild Bunch
Anno
2009
Nazione
UK
Genere
commedia
Durata
116'
Distribuzione
BiM Distribuzione
Uscita
04-12-2009
Giudizio
Media

La vita di Eric, il postino, sta andando a rotoli…
La famiglia caotica, i guai con i figli e la betoniera in giardino non aiutano, certo, ma a tormentare Eric è soprattutto un segreto che si porta dentro da trent’anni. Riuscirà ad affrontare Lily, la donna che ha amato e abbandonato da ragazzo? Nonostante l’entusiastico e a volte strampalato sostegno dei suoi amici e compagni di fede calcistica, Eric continua ad affondare.
Nei momenti di disperazione, ci vogliono uno spinello e un amico speciale per convincere un postino in crisi a intraprendere il difficile viaggio nel territorio più insidioso – il passato.
Come dicono i cinesi - e un francese: “Se hai paura di tirare i dadi, non farai mai un sei.”

Note di scrittura: Paul Laverty
Quando Ken mi ha detto che Eric Cantona voleva incontrarlo, pensavo che fosse uno dei suoi soliti scherzi. Ultimamente la sua squadra del cuore, il Bath City, era in crisi e Ken soffriva parecchio. Credevo che si consolasse fantasticando. E invece… il Re in persona era lì, seduto nei nostri uffici.

Ci siamo incontrati per parlare di un breve trattamento che Cantona aveva scritto con i suoi fratelli per la casa di produzione francese Why Not. Era una storia vera, e parlava di un tifoso che aveva seguito Eric dal Leeds United al Manchester United, perdendo lavoro, amici e famiglia. Era sicuramente un progetto interessante, anche se credo che le storie di fantasia consentano una maggiore libertà e abbiano sempre grande presa sul pubblico.

Sarà che avevo una brutta influenza quando ci siamo incontrati, ma continuavo a pensare ai tanti magnifici gol di Cantona, ai suoi lampi di genio, al suo temperamento, al famigerato calcio in stile Kung Fu, ai cori del pubblico e a quel gioiello assoluto di gol segnato contro il Sunderland. Certamente la figura di Cantona era affascinante sia sul campo che fuori, e piena di potenzialità. Io e Ken ne eravamo convinti.

Dopo due film molto duri e impegnati come In questo mondo libero e Il vento che accarezza l’erba, Ken, Rebecca [produttrice] ed io avevamo deciso che il prossimo progetto sarebbe stato più “leggero”. Ne andava della nostra salute mentale.
Da qualche tempo con Ken pensavamo a una storia che parlasse di nonni. Sapevo che il soggetto non era di quelli che entusiasmano i finanziatori, ma da quando sono nati i miei figli ho cominciato a interrogarmi sull’importanza e la complessità del ruolo che hanno i nonni nelle nostre vite. In un certo senso, sono il fulcro di tutto, ma – tranne poche eccezioni – non si vedono sul grande schermo, o appaiono grossolanamente stereotipati.

I personaggi più maturi hanno un passato ricco di esperienze, e mi ha sempre attratto la possibilità di scrivere una storia che guardasse tanto al passato quanto al futuro. Il passato non ci cancella, e continua ad agire sulle nostre vite.
E così, hanno cominciato a venirmi in mente una serie di domande e di idee contraddittorie, che insieme formavano un’unica grande matassa ingarbugliata. Mi sono ritrovato a pensare a come affrontiamo i momenti di svolta nella nostra vita; a come certe persone lascino un’impronta indelebile dentro di noi, e a quali di loro ricorderemo in punto di morte. Ho cominciato a pensare al tempismo di certi eventi, a quello che siamo nel momento in cui incontriamo un’altra persona. Gli errori passati possono continuare a tormentarci - il dolore e la colpa possono alimentarsi a vicenda in un circolo vizioso che rischia di gettare un’ombra sul presente. Ho pensato al dono meraviglioso della memoria, che può riaccendere una fiamma di trent’anni prima e farla bruciare con la stessa intensità di allora. Mi sono chiesto cos’è che ci blocca e cos’è che ci fa cambiare, e perché sia tanto difficile capirsi. Cos’è che non sappiamo, e cosa è semplicemente troppo doloroso da affrontare? Mi sono interrogato sulla nostra capacità di perdonare, non solo l’altro ma noi stessi.
E col passare degli anni, quando invecchiamo, che ne è della nostra sicurezza, del nostro fragile senso di identità? Quello che diventiamo quasi mai corrisponde a quello che abbiamo immaginato con la spavalderia dei vent’anni. La vita può essere un gran casino. Gestire le nuove esperienze che vanno a stratificarsi in un flusso continuo è una sfida infinita. E a volte scivolare da un momento di crisi alla follia è più facile di quanto non siamo disposti ad ammettere.

Forse queste riflessioni sono state il frutto dell’influenza, delle mie conversazioni con Ken e dell’inaspettato - il gol di Cantona contro il Sunderland. Non è un semplice tiro, ma un momento di bellezza. La grande tecnica, il modo in cui Eric smarca i due difensori, il sublime passaggio al compagno di squadra Brian McClair – mentre senti crescere l’eccitazione del pubblico - e poi l’audace intuizione finale e il tiro a effetto con la palla che disegna un bellissimo arco e atterra a qualche centimetro dal palo sinistro. Rete. Il pubblico esplode in un boato di piacere e di stupore. Si capisce perché Eduardo Galeano abbia definito il gol “l’orgasmo del calcio”. Ma non è stato tanto l’orgasmo a colpirmi, quanto l’atteggiamento di Eric dopo il gol: gonfia il petto, rende omaggio a tutti i presenti con un giro completo del campo come per guardare ognuno dei 50mila spettatori negli occhi, e dice “È il mio regalo per voi!” Un momento di suprema sicurezza di sé, di comunione con lo stadio intero.

Non so perché, ma all’improvviso ho immaginato che sugli spalti, quel giorno, ci fosse un tizio che si chiamava Eric Bishop. Per quattro mesi quel gol gli aveva dato la forza di tirare avanti, mentre la sua vita precipitava nel caos. Quando incontriamo Little Eric – padre, patrigno, nonno e due volte separato – i giorni in cui andava allo stadio con gli amici a vedere Cantona sono lontani. A differenza di Big Eric, sente di essere un libro aperto per gli altri. Sa che sta perdendo il controllo della sua vita. Ma soprattutto sa di non potere più fare affidamento su se stesso – e questo lo terrorizza. Quando Little Eric si guarda allo specchio, vede un uomo smarrito, sull’orlo del baratro. Fantasticavo di poter fare incontrare questi due Eric, e stare a guardare cosa succedeva. E quale posto migliore, per incontrarsi, se non nella testa di Eric Bishop, mentre lotta per non impazzire, braccato dal passato e dal presente, nascosto nella sua piccola stanza da letto. Riuscirà Eric Bishop a ritrovare se stesso?

Ken ed io ci siamo divertiti a immaginare le varie possibilità, ma solo in astratto. Finché non abbiamo rivisto Cantona per proporgli questa insolita accoppiata. Big Eric avrebbe accettato di essere il frutto della fantasia malata di un nonno? E di vestire i panni di uno strampalato strizzacervelli che fuma spinelli? E sapeva ballare il rock & roll? Io sapevo una cosa sola: adorava i proverbi.
In tutta onestà, mentre andavo a Parigi a incontrare Cantona per la seconda volta, non avevo idea di come sarebbe andata. Anzitutto volevo capire cosa ne pensava lui di questa idea un po’ folle, e poi farmi un’idea di che persona fosse. Alla fine, è andata che ho passato alcuni giorni fantastici con Eric a ridere insieme di alcune delle scene che avevamo immaginato. Ed è stato lui stesso a suggerirmene delle altre. Fin dall’inizio si è rivelato incredibilmente modesto e soprattutto pronto a prendersi in giro. È stato importante per me scoprire che provava una sincera comprensione per il personaggio di Eric Bishop e per la sua vita. E questo mi ha dato uno straordinario senso di libertà, quando mi sono messo a scrivere la sceneggiatura.

Cantona ci ha regalato alcune gemme in quei giorni. E tanto per non smentire il suo personaggio ci ha spesso spiazzato. Gli ho chiesto che effetto facesse trovarsi davanti a 50mila persone che gridano il tuo nome e intonano cori in tuo onore. Mi ha risposto che aveva paura – paura che potessero smettere. (Mi ha ricordato Maradona: “Ho bisogno che abbiano bisogno di me.”) Ogni volta che entrava in campo voleva stupire il pubblico, ci ha raccontato, ma per riuscirci doveva prima di tutto stupire se stesso. Gli ho chiesto quale fosse stato, per lui, il suo momento calcistico più alto. Mi aspettavo che rispondesse il gol della vittoria in una finale di coppa o qualcosa del genere. Mi ha di nuovo sorpreso, dicendomi che era un passaggio fatto a Ryan Giggs. (Non siamo riusciti a trovare un filmato di questo passaggio e del gol successivo, ma il suo passaggio a Irwin mi è rimasto scolpito nella mente.) E se Giggs avesse sbagliato il tiro? La risposta di Cantona: “Devi fidarti dei tuoi compagni di squadra. Sempre.” Questo era perfettamente in linea con una delle idee centrali del film: nonostante le sue fragilità, Little Eric trova il coraggio di rischiare e di tornare a fidarsi dei suoi amici e di Lily.
Gli ho chiesto dei nove mesi di sospensione, un periodo terribilmente lungo se si considera la brevità della carriera di un calciatore professionista. Dopo una vita così disciplinata, la routine degli allenamenti e delle partite, per non parlare dell’eccitazione che si prova a giocare di fronte a stadi gremiti, gli ho chiesto come avesse fatto a sopportare quell’isolamento forzato. Mi ha risposto che aveva dovuto trovare qualcosa che riempisse quel vuoto. “Che cosa?”, gli ho chiesto io. E lui: “Mi sono messo a suonare la tromba.” Vi rendete conto? Un genio del calcio che passa dagli stadi adoranti alla solitudine della sua stanza, dove combatte con i tasti di un tromba!
Big Eric o Little Eric, dobbiamo tutti fare i conti con le nostre difficoltà e dare un senso alle cose che ci accadono. Adoro la scena surreale del film in cui Big Eric, armato di tromba, e Little Eric, armato solo dei suoi ricordi, stanno su un terrazzo da cui guardano Manchester e l’orizzonte lontano: ogni nota stonata suona magica, come un inno all’imperfezione delle tante vite sotto di loro. Una celebrazione della nostra fragilità, e un chiaro invito ad avere fiducia nelle persone che amiamo. Sempre.

Intervista a Ken Loach

“Un giorno mi hanno detto che Eric Cantona voleva incontrarmi…”

È stato circa due o tre anni fa. Senza di lui non ci sarebbe nessun film. Un produttore francese molto simpatico, Pascal Caucheteux, ha parlato con Rebecca [O’Brien, produttrice] e ci ha proposto un incontro con Cantona. Ovviamente noi conoscevamo bene il personaggio pubblico, il calciatore straordinario. E loro sapevano che io e Paul [Laverty, sceneggiatore] eravamo tifosi di calcio. Così ci siamo incontrati. Eric aveva alcune idee molto interessanti, in particolare la storia del suo rapporto con un tifoso. Paul ed io non siamo riusciti a tirarne fuori qualcosa che funzionasse in termini di personaggi e sviluppo della storia, ma ci era sembrato un tema interessante da esplorare: non solo la parte spettacolare del calcio e il ruolo che il calcio ha nella vita delle persone, ma anche gli aspetti legati alla celebrità, al modo in cui stampa e televisione costruiscono personaggi che agli occhi della gente assumono qualità soprannaturali.

Paul è ripartito da zero e ha scritto una storia che riunisse in sé tutti questi elementi. Non eravamo affatto preoccupati di farla leggere a Cantona, perché ci eravamo già incontrati diverse volte, e avevamo capito che tipo era: uno che non si prendeva troppo sul serio, e che ci aveva dato l’impressione di essersi subito innamorato del progetto. È stato divertente, per nulla stressante. Speravamo solo che l’idea gli piacesse e che accettasse di fare il film.

Perché Cantona?
È originale, brillante e acuto. È un uomo che ha le sue idee. Le sue schermaglie con i giornalisti sono sempre state intelligenti e spiritose, prima e dopo la famosa conferenza stampa in cui aveva dichiarato: “Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine.” Le sue riflessioni sul calcio e sulla sua carriera – soprattutto quelle emerse nelle conversazioni con Paul - sono diventate parte integrante del film.
Quando Cantona entra in una stanza, la sua presenza si impone. Ha un carisma, un magnetismo unici. Per un attore parliamo di “proiezione naturale”, quando dal palcoscenico riesce a comunicare qualcosa a tutto il pubblico, anche a quello dell’ultima fila, dando l’impressione di non fare nulla. Eric lo faceva in campo - comunicava con 70mila persone. È una straordinaria dote naturale.
A Manchester è stato trattato con grande rispetto e affetto. Abbiamo dovuto tenerlo un po’ al riparo dai curiosi – per la prima volta ho avuto i paparazzi sul set. E se passeggiavi con lui per la strada, il traffico rallentava e la gente voleva stringergli la mano.
Sono stato a vedere una partita con lui all’Old Trafford. Senza sapere che lui era lì, la gente intonava i cori di Cantona – cantavano ancora il suo nome, dieci anni dopo la sua partenza. Poi, quando hanno scoperto che lui c’era davvero, è successo il finimondo. Ho visto piangere uomini grandi e grossi! Mentre andavamo via, anche i più anziani venivano a stringergli la mano. Pochi giocatori hanno suscitato tanto affetto.

Perché il calcio?
Io lo conosco solo da spettatore, ma andare a una partita è un gran modo per socializzare. Incontri tanta altra gente che ha qualcosa in comune con te: l’amore per una squadra. Non c’entra il lavoro, non c’entra tutto il resto. C’è solo la partita da vivere insieme a tante altre persone.
La partita è anche una palestra di emozioni. Le vivi tutte: speranza, gioia, tristezza, dolore, angoscia, attesa. L’estasi delirante quando arriva il gol. Provi tutte queste emozioni, ma all’interno di un contesto “sicuro”. Ti appassioni e soffri ma in fondo sai che è solo un gioco, e che la vita vera è un’altra cosa. È uno straordinario esercizio terapeutico.

Chi è Eric Bishop, il personaggio principale del film?
È un uomo intelligente che soffre di attacchi di panico. Attacchi che gli hanno impedito di avere un rapporto stabile e duraturo con una donna. Ma la sua politica è sempre stata quella dello struzzo: uscire con gli amici, andare alle partite, bere qualcosa e fare finta di niente. Il risultato è stato il fallimento del suo primo matrimonio. Poi ha sposato una donna che si è messa a bere e un bel giorno se n’è andata lasciandogli i due figli avuti da due precedenti relazioni. E siccome Eric in realtà è una persona molto generosa, li ha tirati su come fossero suoi. Finché sono stati piccoli è andato tutto bene, ma diventati adolescenti hanno cominciato a fare quello che fanno tutti gli adolescenti: quando intravedono una debolezza, la sfruttano. E così, lo stanno distruggendo. Eric Bishop resta con una grande casa che non riesce più a gestire, e naturalmente caos porta caos. A malapena riesce a conservare il lavoro, e quando lo vediamo per la prima volta è nel bel mezzo di un attacco di panico.

Come ha scelto gli attori?
Dopo la sceneggiatura, il casting è il momento più importante. Ho lavorato di nuovo con Kathleen [Crawford, direttrice del casting] e abbiamo visto attori conosciuti e sconosciuti, di ogni tipo. È sempre importante che il film sia radicato in un luogo preciso, così abbiamo circoscritto la scelta ad attori di Manchester e dintorni. L’Eric del film è un tifoso del Manchester United in un periodo in cui la maggior parte dei tifosi del Manchester erano di Manchester. Quindi ci sembrava importante che fosse di lì. Steve Evets ci è sembrato subito convincente nei panni di un uomo in crisi. È anche divertente, ma non come può esserlo un comico che recita una parte: è autentico. Noi cerchiamo sempre attori in grado di essere autentici, e al tempo stesso coerenti con le caratteristiche del personaggio. Perché puoi trovare un attore veramente perfetto – giusta classe sociale, tutto giusto – ma quando poi lo vedi in azione non somiglia affatto al personaggio. Devi trovare qualcuno con tutte le caratteristiche giuste, certo, ma che somigli al personaggio che vuoi vedere sullo schermo.

Com’è stata l’entrata in scena di Cantona, durante le riprese?
Che momento! È stato piuttosto complicato. La sorpresa è una delle cose più difficili da rendere in modo efficace sullo schermo, così abbiamo preferito non dire niente a Steve [Evets]. Sapeva che Cantona era coinvolto come produttore, ma non che sarebbe stato fra gli interpreti. Il giorno che Cantona doveva entrare in scena, abbiamo accompagnato Steve nella camera in cui dovevamo girare. Poi gli ho detto: “Non c’è la luce giusta. Dobbiamo cercare di eliminare i riflessi. Torna tra dieci minuti.” Mentre Steve è uscito a fumarsi una sigaretta, Cantona si è nascosto dietro a un drappo nero che avevamo messo intorno alla macchina da presa. Dopodiché abbiamo girato la scena. Steve era rivolto verso il poster a grandezza naturale del calciatore, e Cantona è sbucato da dietro il drappo, si è messo dietro di lui e ha parlato. Purtroppo, avevamo alcuni assistenti operatori belgi, e quando Steve ha sentito la voce ha pensato che fosse stato uno di loro a parlare. Quindi è rimasto lì, senza sapere cosa fare. Il primo ciak non ha funzionato granché. Ma c’era rimasta abbastanza sorpresa per il secondo ciak!

E’ stato difficile passare dalle scene comiche ai momenti più seri?
Puoi solo sforzarti di essere autentico. E ancora un volta si tratta di trovare interpreti che sanno essere divertenti in modo vero, naturale. Oppure veri e naturalmente commoventi. Nel momento in cui lo spettatore pensa “Ecco, questa è una scena comica” o “Ecco, questa è una scena triste” vuol dire che hai sbagliato tutto. Ecco perché uno come John [Henshaw] è un bravo attore. È serio e divertente senza essere diverso da quello che è. Anche Ricky Tomlinson è così. Sa essere divertente e serio restando sempre se stesso. La cosa essenziale è che non deve cambiare marcia.

Quale messaggio spera che arrivi al pubblico che andrà a vedere il film?
È un film che parla di amicizia e del prendere atto di quello che sei. È un film contro l’individualismo: siamo più forti insieme che da soli. In fondo, parla della solidarietà che nasce fra amici – tra i tifosi di una stessa squadra di calcio, ma anche tra colleghi di lavoro. Può sembrare una cosa scontata, eppure non è un’idea così popolare di questi tempi. Per lo meno da una trentina d’anni a questa parte, da quando abbiamo smesso di essere compagni di viaggio e siamo diventati tutti concorrenti in competizione gli uni con gli altri.

Cantona suona la tromba nel film. Ha un futuro come musicista?
Dopo che George Fenton lo ha sentito suonare, ho mandato un sms a Cantona che diceva: “I musicisti sono rimasti colpiti ma ti consigliano di aspettare a lasciare il calcio.” E lui mi ha risposto con un altro sms: “Forse hanno paura che gli rubi il lavoro.”