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Sinigaglia, Scommegna, Colaprico
[a cura di valentina escobar]

Perché hai scelto di mettere in scena questo noir?
Serena Sinigaglia Sono un’amante di noir. Quando voglio liberarmi la mente non guardo la tv ma leggo un giallo perché è un gioco, è un rebus, è come le parole crociate, mi tiene desta l’attenzione. Si tratta quindi da una parte di una passione, ed è bello mettere nel proprio lavoro anche una cosa che fai per divertimento, dall’altra, volevo fare un regalo ad un attore, un’attrice in questo caso, e desiderando fare il punto con lei su dove sono arrivata, su quale è stato il percorso fatto con questa persona, mi diverto su un genere che mi appassiona.
Infine, volevo parlare di Milano, la mia città e quella di Arianna, il luogo in cui siamo nate e cresciute ed è una città nei confronti della quale è difficile trovare qualcuno che non abbia una relazione tragica, di amore e odio, di attrazione e repulsione contemporaneamente; è il luogo che ci siamo trovate in eredità. Poi Milano è una città poco cantata, perché è una città difficile, come tutte le città un po’ brutte e quindi poco cantate dai poeti a differenza di Roma, Venezia, Firenze.

Cosa ti aspetti dalla città di M?
Serena Sinigaglia Sono portata ad essere un po’ pessimista perché a me sembra che Tangentopoli sia stata non l’inizio di una nuova epoca, ma il colpo di coda, il canto del cigno di un’epoca dove i valori etici, l’importanza dei servizi sociali, la città vissuta con la partecipazione dei cittadini, la dignità, avevano un altissimo valore. È stato il canto del cigno dell’eticità della città di M., non l’inizio di qualcosa di buono bensì di un peggioramento. Non vorrei andare sul politico, ma penso che gli amministratori e i politici abbiano la responsabilità del declino morale ed etico della città, della poca valorizzazione del potenziale che questa città ha. Lo vedo anch’io nella mia realtà di teatrante che per molti anni non sono stata aiutata dalle istituzioni.
La città di M. è una città che mi ha delusa: quando ero bambina mi piaceva di più! Ero fiera di essere milanese. Invece adesso, da Tangentopoli in poi, mi è sembrato che nessuno abbia saputo migliorare la situazione.
Nella città di M. i personaggi sono soli, fanno fatica a comunicare, a fermarsi e guardarsi. È la città del taxista che supplica di essere lasciato in pace e libero di vivere e soffrire; di colui che non ha mai fatto male a nessuno e non vuole essere coinvolto in fatti che non lo riguardano ma se viene accusato di menefreghismo si indigna.

Pensi che il teatro possa aiutare ad evitare quel carcere, quella solitudine e quella paura di cui si parla?
Serena Sinigaglia Si!Il teatro è una risacca di resistenza positiva all’alienazione cittadina, perché è il luogo per antonomasia dell’incontro, o meglio, dell’incontro straordinario nel senso proprio dell’intensità del rapporto, della relazione; è un luogo dove ti occupi della qualità di relazione tra le persone e quindi è un luogo che crea legami, che unisce, non disgrega, non aliena, non lascia in solitudine; è un luogo dove vai a pensare e dove vai (quando è fatto bene) ad emozionarti, quindi è un luogo pieno che ti offre un’esperienza densa e ti fa incontrare altre persone.

Cruda realtà, ma anche ironia?
Serena Sinigaglia Sulla realtà cruda non c’è molta ironia; al massimo vuole esserci uno sguardo un po’ alla Tarantino, il desiderio di offrirti lo specchio dell’assurdo. Ad esempio, il commissario, il Bagni, parla al telefono d’amore in mezzo al sangue. Un po’ come in Pulp Fiction quando spara il colpo per caso e la macchina s’imbratta del cervello di quel poveretto. Viviamo in una società dove la violenza ti riguarda e ti circonda talmente tanto che non la vedi più, non te ne accorgi e quindi si creano situazioni paradossali. E’ lo specchio della nostra insensata cecità, ma c’è un grande rispetto per chi è vittima di questa crudezza. Sicuramente, sia nel testo che nello spettacolo c’è ironia perché io amo l’ironia e credo che anche Piero la ami e quindi ci troviamo assolutamente in accordo. Ma questo “alla Shakespeare”: non c’è tragico se non c’è comico; la vita è una tragicommedia e quindi se vuoi descrivere la vita delle persone per forza incapperai in momenti di altissima tragedia e in momenti di altissima ridicolaggine.

“Un tempo la città di M. un cuore ce lo aveva”. Dove è finito? Lo si può ritrovare?
Serena Sinigaglia Secondo me lo si può ritrovare in quegli sprazzi buoni e positivi che la città ancora ha, nel fermento culturale, nei gruppi off off off che lavorano, nei pittori, negli artisti che si muovono anche senza soldi, senza niente, ma che lo fanno a Milano. La cosa bella di Milano è che l’efficienza porta a fare le cose bene fino in fondo anche senza soldi con serietà e questo ha assicurato alla città un fermento di idee, di possibilità culturali serie e reali. A Milano non ci si perde: la sua bruttezza la preserva dalla dispersività e se hai un desiderio e lo vuoi mettere in pratica questa è la città giusta, perché nella nebbia, nel grigiore, nel freddo, ti chiudi in una stanza e ti metti a cantare con un gruppo, ti metti a fare ricerca universitaria, ti metti a fare uno spettacolo, ti metti a dipingere e ti fai venire delle idee incredibili per un romanzo. E’ paradossalmente un luogo con un grande potenziale creativo che forse può salvare la città stessa e riportarla ad una vivacità che mi sembra essersi un po’ spenta a causa di chi ci ha governati e che ha voluto dirigere la città solo in alcuni sensi, tralasciandone completamente degli altri.

Ad una prova hai detto che stimi Larvetta. Perché?
Serena Sinigaglia (Ride) No, lo dico per simpatia. Non lo stimo molto in verità perché anche il Larvetta ha sviluppato una corazza che lo porta ad essere indifferente. Quindi non posso stimare chi ha atteggiamenti indifferenti per quanto non credo di esserne immune, come nessuno di noi, magari lo siamo e non ce ne rendiamo conto. Dico che lo stimo perché mi fa ridere, perché lo riconosco: ho degli amici così nei modi, nelle forme, assolutamente non nella sostanza, e pur nell’indifferenza sono persone sensibili, acute e attente. Mi fa molto ridere, è un personaggio comico che va incontro a un sacco di sciagure, si dà un sacco di arie ma va incontro ad un sacco di sfighe.

Nei tuoi spettacoli c’ è un rapporto importante tra testo, azione, narrazione e musica. Ci racconti le tue scelte musicali per questo nuovo noir?
Serena Sinigaglia La scelta musicale è molto radicale: solo musica classica. Perché la musica classica mi permette di descrivere un fatto di cronaca come quello scelto da Piero e un fatto quindi in qualche modo non epico, ma di un’avvilente quotidianità: non è Medea che ammazza i bambini, ma una poveretta che ha un figlio deficiente nel senso di deficitario, matto, che sente le voci e che in preda ad un attacco schizoide la uccide. Non c’è niente di epico in tutto questo. Allora proprio per questo devo usare la musica come se fosse in verità un racconto epico, come se questa donna in quel momento fosse Clitennestra. È come se sentissi sulla scena di dover andare per contrasto, non per analogia. E poi Mina. Mina non stona perché ha la sua epicità all’interno di un contesto musicale epico. È una forma di epicità contemporanea.

Un noir di un drammaturgo contemporaneo e per giunta vivente. Quanto ha inciso sul tuo lavoro?
Serena Sinigaglia Penso che il noir per un regista sia un genere estremamente stimolante perché devi costruire un meccanismo ad orologeria. È una sfida con lo spettatore. Questo testo l’abbiamo quasi riscritto se non a sei mani (io, Piero e Arianna Scommegna), quanto meno sicuramente a quattro mani. L’idea primigenia è di Piero, poi passa attraverso di me, io lo ridigerisco, io lo rimando, lui me lo rimanda, lo lavoro con Arianna, a questo punto lo risistemiamo e lui ci mette il suo timbro. Diventa veramente una relazione collaborativa. Il testo che va in scena non è quello che Piero aveva consegnato due mesi fa. Ma questo è il bello dell’autore vivente. È la verità della relazione viva.

Una stanza, un sipario di sangue in declivio, l’uso del neon…a quale atmosfera hai pensato per questo spettacolo?
Serena Sinigaglia A un limbo di cemento perché la città di M. è un limbo di cemento, una camera mortuaria, ma anche il paradiso. Il sangue è colore, è sia la morte sia la parte buona della città, il sangue che non si rassegna a congelarsi nelle vene, il sangue che aumenta i battiti cardiaci, la circolazione sanguinea quando hai un’idea e la vuoi realizzare. Il famoso potenziale creativo della città che scorre nel cemento, tra le pieghe del cemento nonostante tutto e tutti, nonostante il cemento stesso e lo smog.

Serena cosa vorresti che rimanesse al pubblico della vostra città di M.?
Serena Sinigaglia Non una sola cosa. Tante cose! Mi prefiggo sempre di far vivere al pubblico una cosa intensa, una piccola vita in un’ora e mezza. L’intento è farlo ridere, farlo piangere, farlo riflettere su questa città. Sono curiosa di sapere cosa penseranno di questo pensiero un po’ pessimista sulla città di Milano. Pessimista, ma non rinunciatario! Non sconfitto!
Voglio ancora lottare, non rinuncio. Quindi sono anche curiosa di capire. Non mi prefiggo uno scopo preciso. Se io riesco ad emozionare, a divertire, a coinvolgere, a farmi capire dalla gente….io il mio mestiere dai, me lo sono portata a casa.

Arianna è un’attrice di grande energia, poesia e concretezza. Come è stato questo tuo lavoro con lei anche se il vostro è un rapporto che dura ormai da anni?
Serena Sinigaglia Arianna ha fatto la scuola con me quindi adesso sono quindici anni che ci conosciamo e dieci che lavoriamo insieme a quasi tutti gli spettacoli perché lei ha fondato con me l’ATIR. Ho imparato che la fiducia non è un valore acquisito per sempre, la devi continuamente sempre rinnovare. Una relazione per mantenersi viva deve essere sempre costantemente dialettica, bisogna essere capaci di mettersi vicendevolmente in crisi, di non sedersi mai su delle presunte sicurezze. Il nostro è un rapporto dialettico. Molto. Questo è un buon periodo!

Sette personaggi, uomini e donne interpretati da una sola attrice. Esseri umani diversi e alcuni perfino opposti che vivono o meglio sopravvivono nella stessa città, la città di M., la città del noir. Come può una sola interprete rappresentare così tante facce, sensazioni e pensieri di un’unica realtà?
Arianna Scommegna Una mia caratteristica è proprio lavorare sui personaggi, mi posso definire un’attrice caratterista. Mi ricordo che una volta a scuola lavorando sui personaggi avevamo parlato dell’albero genealogico: ognuno di noi ha un albero genealogico dove ci sono i nonni, gli zii, il papà e la mamma e tu racconti tutto quest’albero genealogico che hai dentro di te anche se poi sei sempre tu ovviamente. Tutti personaggi che hanno parti di te: buone, cattive, invidiose….Ognuno di noi ha tutti i caratteri. Ogni persona poi ne ha più sviluppato uno rispetto agli altri però potenzialmente li possiede tutti . Siamo anche dei potenziali assassini.

La città di M. è la città della solitudine e dell’indifferenza: gli uomini corrono dietro ai fantasmi, la giornalista costretta ad una continua frenetica corsa chiede di fermarsi perché tanti hanno bisogno d’amore, ma il problema è la paura. È così?
Arianna Scommegna Il discorso sulla paura credo che sia molto, molto attuale. Forse lo è sempre stato, ma adesso mi sembra in maniera particolare: essendo crollati tanti punti di riferimento ed essendo nati e cresciuti nel vuoto di ideali e di punti di riferimento, credo che la paura sia una grossa componente della nostra vita. Soprattutto nella nostra città perché magari in un paese è più facile essendo una piccola comunità non perderti di vista; in una grande città fai fatica a trovare delle relazioni dense anche se poi Milano ti dà delle opportunità di questo tipo, ti dà la possibilità di creare. Ma devi essere molto bravo e fortunato. Io mi ritengo fortunata perché ho trovato delle persone stupende, i miei compagni con cui ho fondato l’ATIR e per me sono anche i maestri.

“A stare tanti anni per le strade di una città finisci che non capisci più dove sta il limite tra te e lei, dove finisci tu e inizia lei e viceversa”. La stessa cosa vale per te attrice con i tuoi personaggi dopo ore e ore di prove ? Che rapporto hai con loro?
Arianna Scommegna (ride) Si! Se ti potessi raccontare i sogni di queste notti…. Sicuramente il personaggio te lo porti ovunque, non riesci a staccare e quindi penso continuamente a loro. A me piace molto nel mio lavoro stare a guardare. Infatti è stato molto utile l’incontro alla questura di Milano con una poliziotta. Osservo le persone, cerco di scoprire i dettagli dei loro caratteri per poi poterli recuperare in modo preciso quando do’ vita ai personaggi. Quando studio a casa, mio figlio mi vede fare tutte queste voci e un po’ ride, un po’ è perplesso ….è un gioco!

“La città con tanti immigrati , italiani e stranieri si gonfia di gente che è venuta qui a sudare , ma forse cercava un sorriso , cavoli , che cosa è un sorriso , mamma ?” Arianna che cosa è per te un sorriso ? Può essere un aiuto per vivere in una città di M.?
Arianna Scommegna Assolutamente si. Quando ero piccola mi chiamavano “la tragedia greca”e di fronte ai problemi sono sempre molto seria, cupa. Invece a volte, mi rendo conto che soprattutto nei momenti di difficoltà se fai un sorriso ti cambia l’universo anche se non sai trovare la soluzione. Non sempre ci riesco…Però mi ricorderò sempre di quando Laura Curino per la prima delle Troiane ci ha detto: “fate un respiro e poi un bel sorriso!” A volte sorrido alle persone per strada e vedo che cambiano.

Se il copione questa volta lo scrivessi tu, cosa vorresti dire della città di M.?
Arianna Scommegna Vorrei dare più spazio a tutta quella parte solare, resistente che dà la forza di continuare. Adesso nella città di M. c’ è un colore amaro che dipende sicuramente da come viene gestita la città, quella è una grossa responsabilità. Però dipende anche dagli stessi cittadini che devono riuscire a creare una comunità che produce, ma integra. In caserma dicevano che la maggioranza dei crimini è commessa da extracomunitari, ma è ovvio perché sono loro le persone con più disagi.

Arianna, il tuo percorso teatrale con Serena dura ormai da anni. A che punto della vostra ricerca siete arrivate?
Arianna Scommegna Sono incredibilmente affascinata dalla possibilità di costruire con una persona una relazione sempre più profonda, più intensa. Il rapporto rimane vivo se riesci a stupirti, a sentire sempre il frizzantino. Serena per me è straordinaria come persona, cittadina e leader. Il nostro lavoro è basato sul coro, sul racconto di tante voci, ognuna diversa dall’altra, con un suo carattere. Questa diversità ci ha permesso di vivere. Ad esempio con Troiane siamo riusciti a raccontare la storia di un popolo costituito da tanti individui che anche se dicono poche battute sono forti e vivi come i protagonisti o i coprotagonisti.
Un ottimo lavoro di squadra: quando hai poco spazio non lo giudichi, ma lo comprendi e chi ha più spazio fa in modo che anche i ruoli minori lo possano prendere.

Normalmente un regista sceglie di mettere in scena un monologo per un atto di generosità nei confronti di un attore o di un’attrice. Come vivi questo regalo che Serena ti ha fatto?
Arianna Scommegna Sono felicissima. Per me è un regalo prezioso perché mi permette di lavorare molto di più sola con lei. Lo vivo come un dono. Però anche se è un monologo rimane sempre un lavoro di squadra: i costumi, i tecnici, le musiche, le luci…è sempre un lavoro collettivo che proprio perché di gruppo ha contribuito alla crescita dello spettacolo.

Quale è la tua meta d’attrice, il tuo “appuntamento” con il teatro?
Arianna Scommegna Una crescita, una scoperta quotidiana. Il mio lavoro con l’Atir è il mio progetto di vita e spero che continui ad esserlo. Vorrei che la compagnia avesse un teatro, un luogo per poter diventare un riferimento anche per la città.

Una domanda che tu stesso autore poni all’inizio dello spettacolo: “perché scrivere un noir ambientato nella città di M.?” Pensi si riesca ancora a comunicare e quindi ad amare, ammesso che ci sia un nesso tra la comunicazione e l’amore?
Piero Colaprico C’è chi dice che si scrive per amore di qualcuno o a volte anche per odio verso qualcuno. Questo non è un testo che parla solo d’amore, parla anche di disperazione, di odio. Ma la comunicazione non ha a che fare sempre solo con i sentimenti; però parlare della città di M. che è una città con ancora una forte identità, dove ancora c’è tanta gente che viene carica di speranza (lo si vede spesso ad esempio dalle lettere che alcuni scrivono ai giornali) ha senso perché la gente ancora cerca qualcosa, questa identità non si è persa. Quindi lo spettacolo ricostruisce questa identità. Un’indagine in cui alla fine il colpevole, ma anche l’investigatore è sempre la città, se non noi.

La scelta di scrivere un monologo è forse legata alla solitudine dei personaggi, dell’ essere umano nella città di M.?
Piero Colaprico Soprattutto nasce dall’esigenza di far provare ad un’attrice, un attore, insomma una persona, la possibilità di cambiare personaggi. A una regista la possibilità di cambiare scene e cambiare situazioni nonostante siano tutti sempre sullo stesso palcoscenico, ci sia una sola persona a recitare. A me l’esigenza è venuta non tanto dalla solitudine quanto dall’identità. Alla fine siamo tutti la stessa cosa.

Cosa ti aspetti dai tuoi personaggi?
Piero Colaprico Non mi aspetto da tutti la stessa risposta. Da Bagni che è il mio protagonista, quello che compare nel libro “Trilogia della città di M.”, mi aspetto che sia un poliziotto molto concreto ed efficiente; è l’unico che ha un nome e tutti gli altri hanno solo un nome generico per la ragione di prima.
Dalla sua collega, la poliziotta, mi aspetto che incarni il passaggio tra la memoria di come eravamo e un tipo di presente in cui ci troviamo e dalla giornalista che è apparentemente un personaggio superficiale, mi aspetto le virgole che a volte noi mettiamo nei nostri sentimenti, mi aspetto proprio che sia lei a far riflettere di più.

La città di M. è la città di Tangentopoli e Plasticopoli. Quanta responsabilità hanno i politici in questa città e cosa pensi dovrebbero o avrebbero dovuto fare?
Piero Colaprico Io mi sforzo di essere aideologico e imparziale anche se non sempre è possibile. Secondo me il grande dramma che è venuto dopo tangentopoli da parte dei politici è che molti di loro sono imprenditori e gli imprenditori che fanno politica, secondo me, vengono da generazioni di aridità e di profitto e quindi hanno pensato che l’orgoglio della città passasse semplicemente attraverso il successo economico, un’efficienza …. Non è così: i sindaci di prima di tangentopoli potevano essere discutibili per certi comportamenti, ma avevano la misura complessiva della città. Secondo me la nuova politica ha diviso la città nella città di serie A, dove c’è una grande efficienza, vigili urbani molto cortesi, passatoie, vetrine formidabili…Poi una città di serie B dove vive la gran parte di noi e quella di serie C completamente dimenticata dove “vivono i cattivi”. L’armonia che una volta si cercava, un modello, l’utopia socialista, credo che quella sia definitivamente scomparsa. Quindi la responsabilità dei politici è di aver fondato una città piramidale, mentre la città non è piramidale, ma rotonda. Si dovrebbe cercare un’onestà che non è solo un’onestà nei bilanci o nei comportamenti, ma un’onestà delle idee, cioè se lavoro per la città devo ascoltare tutte le voci delle città. Basterebbe che qualsiasi politico avesse questo tipo di onestà. È una città complessa perché viviamo in un periodo di immigrazioni di miserabili da ogni parte del mondo e non è che siccome sono dei miserabili sono per forza dei reietti e bisogna ascoltare anche loro.

A proposito degli immigrati a un certo punto del tuo noir dici che forse gli immigrati si aspettano un sorriso quando vengono da noi. È così?
Piero Colaprico Non ho dubbi su questo. Penso che tutti da noi si aspettino un sorriso. Anche noi stessi, ogni volta che ci muoviamo, anche in incontri fugaci, occasionali, non ci aspettiamo niente perché abbiamo imparato a convivere con un mondo brutale e a volte squallido o negativo, però quello che noi ci aspettiamo è un po’ di gentilezza e un po’ di cortesia. Qui invece si è persa, sembra che l’importante sia essere efficienti, ma non è affatto vero perché a volte basta un sorriso, un tentativo di provare a condividere. Credo che il famoso cuore in mano di Milano si sia inaridito.

Cosa pensi del progresso scientifico?
Piero Colaprico Penso che l’ignoranza ci faceva credere di essere al centro del mondo, quello che non siamo. Più ci sarà progresso, più ci saranno scoperte, avanzerà la medicina, la scienza, le arti, più crescerà la chimica più capiremo come dei nostri sentimenti dipendano da enzimi o proteine. Quindi non è un’accusa al progresso, ma è che ogni volta che il progresso dice appunto che non siamo al centro dell’universo, la psicologia ci fa scoprire imperfetti, spesso ci rassegniamo a queste imperfezioni e invece dobbiamo andare contro la rassegnazione e avere più rispetto gli uni degli altri. Ma adesso siamo in questa situazione, quindi descrivo quello che vedo adesso.

Sfogliando il tuo copione mi accorgo che con l’uomo dell’obitorio nasce il tema dell’assurdo. Possiamo pensare che questo noir sia un testo di teatro dell’assurdo?
Piero Colaprico No. Sto leggendo da alcuni anni anche Beckett, ma non mi sto ancora vendicando con registi e attori imponendo l’albero in scena (ride). Che questo sia un mondo assurdo io ne sono conscio (ride), ma non credo che il mio sia teatro dell’assurdo. Penso che il noir sia oggi uno dei pochi mezzi veloci per mettersi a contatto con un gran numero di persone. È vero, c’è l’attesa di qualcosa che non arriva e che quando arriverà io mi auguro sia una sorpresa; ci sono situazioni che in una normale inchiesta giudiziaria, penale o poliziesca non trovi, ma tutto è legato all’esigenza di dare un’identità alla città di M.

A volte i registi portano in scena testi di autori del teatro classico. Tu invece sei un drammaturgo contemporaneo, vivo, un uomo che conosce e osserva la realtà di oggi. Cosa è significato per te lavorare vicino ad una regista e ad un’attrice ?
Piero Colaprico Sono portato a collaborare, nel giornalismo questo aspetto è costante. Però la sensazione che ho avuto lavorando con Serena e con Arianna è quella di aver creato un trio incredibilmente forte: il mio testo era più lungo, Serena mi ha chiesto di tagliarlo, Arianna ha dato il suo contributo, io ho seguito alcune prove per limare, aggiustare, ho dato dei suggerimenti, ma la cosa curiosa è che chi aveva letto la prima versione e chi poi l’ha riletto non si è accorto dei cambiamenti. Questo vuol dire che è rimasta l’identità forte del testo, della città di M., ma siccome so com’era l’originale, so anche che gran parte del merito della sua velocità e della sua intensità dipende dal lavoro collettivo . Penso che in teatro, come nel cinema, per certi aspetti ci si debba per forza confrontare, difendendo certe cose e cambiandone, perdendone altre.

Quale può essere la funzione del teatro oggi?
Piero Colaprico In realtà non penso che un libro, uno spettacolo televisivo, il cinema, il teatro, la poesia aiutino a cambiare realmente il mondo. Aiutano però gli abitanti del mondo a riflettere su chi sono e cosa vogliono. Una poesia non è una leva di Archimede che serve a costruire, ma serve a sentirsi in pace o in disaccordo con se stesso e quindi comunque produce delle cose molto utili. Se vuoi stare aderente alla realtà, anche oggi puoi fare dei testi teatrali con la speranza che una storia serva allo spettatore a riflettere. Poi magari su cento trovi uno interessato che ti fotografa.

Ci può essere una svolta nella città di M?
Piero Colaprico Si!!!! Nella città vera penso che ci sia perché nonostante sia un posto dove è faticoso vivere, dove tutto costa molto, dove i giovani hanno difficoltà, ma si possono ancora fare delle cose. Una svolta è nelle cose e Milano è sempre abbastanza ricresciuta. Vero è che bisogna ristabilire un equilibrio altrimenti si perde la leva per andare avanti.
C’è però uno scontento, un’infelicità legata alle difficoltà. È una città che ha perso la sua identità e deve trovare ancora un’altra idea. Per quello che riguarda la città di M. continuerò a fare almeno altri due lavori.

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