U-Carmen

[valentina venturi]

Allo Xhosa, un dialetto locale, aggiungete un’ambientazione nei sobborghi del Sudafrica, un cast di attori poco avvezzi ai movimenti della cinepresa, ma molto affiatati e un’opera lirica tra le più note al mondo inserita in un contesto impensato ma credibilissimo. Ecco pronto il film che ha vinto l’Orso d’Oro al 55esimo Festival di Berlino: U-Carmen. Il regista teatrale Mark Dornford-May, di origini inglesi, dopo circa quattro anni di fortunate rappresentazioni on stage, ha deciso di rendere la Carmen di Georges Bizet un lungometraggio. Nella conferenza stampa romana racconta la trasformazione di questa pellicola.

Qual è la gestazione della sua prima pellicola come autore cinematografico?
Quando sono arrivato in Sudafrica ho cominciato a fare dei provini: volevo formare una compagnia teatrale. Avevo bisogno di quaranta attori, ma ne ho selezionati duemila. Si è presentato chiunque, nella speranza di poter avere un lavoro. Abbiamo allestito molti spettacoli, tra cui la Carmen. Le nostre rappresentazioni hanno girato il mondo, con ottimo successo. In particolar modo l’opera di Bizet a Londra è stata molto amata: Pauline è stata definita la Carmen per eccellenza. Siamo stati anche in Australia, America… Dopo tutto questo successo ci è sembrato logico trasformalo in un film. La fortuna ha voluto che incontrassimo un produttore molto fiducioso che è riuscito a trovare i finanziatori. Chi avrebbe mai pensato qualcuno avrebbe scommesso su un film in lingua indigena, tratto da un’opera lirica e ambientato in un sobborgo. Eppure…

La traduzione del libretto di Georges Bizet è stata complicata?
(Risponde la protagonista Pauline Malefane, ndr). Quella di Carmen è una storia universale. Avendo girato il mondo con la tournée teatrale per quattro anni, diciamo che avevamo acquisito i temi fondamentali dell’opera. La vera difficoltà risiedeva nella traduzione nel dialetto Xhosa, nella metrica. Per avere il testo pronto ci sono voluti tre mesi circa. Fortunatamente lo Xhosa è un linguaggio musicale di per se, che ben si prestava al progetto cinematografico.

Come mai ha scelto proprio un’opera lirica, invece di un testo della tradizione locale?
(Prosegue l’intervista Mark Dornford-May, ndr). Pochi sanno che l’Africa ha una tradizione vocale molto radicata. A Città del Capo ci sono 1000 cori, ognuno composto da 100 persone circa. Pauline canta da quando aveva sei anni… C’è l’amore per la bella musica, che sia gospel, popolare, o opera poco importa. Basta che sia bella. Non c’è distinzione tra arte popolare e arte “alta”.

Il sobborgo di Khayelitsha fa da sfondo alla vicenda. Questa scelta ha qualche valenza politica?
Certo. Non appena abbiamo stabilito che la location sarebbe stata la città natale di Pauline, ci siamo resi conto che era un evidente messaggio politico. Il problema economico è una spinta molto forte nella vita di Carmen. Ho creduto giusto dare risalto a questo punto di vista, dandogli un’accezione attuale, condivisibile dai giovani africani. Per questo ho fortemente voluto che la prima proiezione avvenisse a Khayelitsha: il popolo africano non può permettersi di andare al cinema, sia per le difficoltà economiche che per la precarietà degli spostamenti. In soli cinque giorni, da cento spettatori siamo arrivati a 1000. E’ il film più visto in assoluto in Africa.

La rinascita politica dell’Africa ha dato una valida spinta alla cinematografia?
La libertà e la consapevolezza che ha ora il popolo africano sono fondamentali per la rinascita dell’arte e dell’espressività nazionale. I tempi sono maturi perché il cinema autoctono si imponga a livello internazionale, senza dover aspettare gli interventi stranieri. Ed è esattamente quello che sta accadendo.

Per concludere: è vero che il 22 gennaio sarà al Sundance Film Festival con un nuovo film?
Sì. Si tratta di una pellicola incentrata sulla vita di Gesù Cristo, dalla nascita alla crocifissione, ambientato in un’Africa moderna. La vergine Maria è interpretata da Pauline Malefane, quindi sarà un Gesù nero. Recitano i quaranta attori della mia compagnia. Si intitola Son of Man è sarà anch’esso recitato in dialetto Xhosa, ma non è cantato.

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