Colpisce la raffinatissima ed elegantissima metafora del manifesto del Gay Village di Roma 2015. Un campo coltivato a microfoni, con la didascalia: «Qui tutto ha un altro sapore».

La deriva piccolo borghese di una parte della cosiddetta cultura gay (chissà perché poi bisogna aggettivare la cultura), ormai rasenta la tristezza. Un tempo si chiamava umorismo di caserma, i doppi sensi con il continuo riferimento alle tette, al culo, ai cazzi grossi. Poi è arrivata il tempo delle veline e delle troniste, la carne un tanto al chilo, l’immaginario sessuale come repressione di massa.

Oggi abbiamo il trash gay, l’esibizionismo d’accatto, l’orgoglio coatto dell’attitudine sessuale.

Ovvero la trasgressione conformista.

Pier Paolo Pasolini si rivolterebbe nella tomba. Luchino Visconti pure. André Gide non ne parliamo. Aldo Busi e Paolo Poli sono vivi e  urlano la loro differenza. Dai gay.