Alejandro Gonzalez Inarritu

[fabio melandri]

Inarritu sul set con Brad Pitt

Un film che è una riflessione sul caso. Come ha scelto di legare le storie tra di loro?
Babel è l’ultima parte di una trilogia iniziata con Amores Perros, un film che partiva da una prospettiva locale del mio paese. Con 21 grammi sono entrato in un territorio che non conoscevo per arrivare ora a muovermi su ambito globale. Il film nasce dalla complessità della vita di un uomo che viene da un primo mondo per ritrovarsi in un terzo mondo passando attraverso un paese, il Giappone, portatore di una cultura misteriosa che personalmente mi intriga molto.


Lei da un’immagine della polizia come istituzione con cui è difficile dialogare.

Critico l’istituzione della polizia come strumento di repressione che viene dall’alto costringendo persone a dire cose che neanche pensano lontanamente.

Lei parla di autoesilio. Nei suoi film è presente un’umanità che manca di comprensione verso l’esterno.
Io credo che Babel sia un film sulla compassione, unica forma per raggiungere quella linea di confine che esiste all’interno dei nostri cuori. Io ho imparato a rispettare il prossimo. C’è una parola che vado sperimentando ed è tolleranza. Ho imparato a rispettare le diversità linguistiche. Sul set si parlavano 6/7 lingue differenti, con linguaggi in cui una stessa parola aveva più e diversi significati.

Apocalisse irreversibile. Sembra questo il motore de film.
Io non credo nella felicità e tristezza come momenti assoluti. Nella vita abbiamo il colore grigio. Concetti e valori sono stati con il tempo estremizzati. Questo dei film che ho girato è il più allegro o comunque che trasmette più speranza.

Babel è un film dalla struttura complessa che unisce mondi lontani. La nostra vita è legata a quella degli altri, non siamo soli. Le nostre azioni hanno ripercussioni che noi non immaginiamo.
In Amore Perros avevo tre storie che si intersecavano in un unico punto. In 21 grammi invece un’unica storia era raccontata attraverso tre punti di vista. Qui abbiamo quattro storie, quattro personaggi che sono fisicamente lontani tra loro, che mai vengono in contatto direttamente, ma sono strettamente legati ad un livello emotivo. Sono fortemente convinto che le decisioni prese in un angolo del mondo abbiano ripercussioni all’angolo opposto. Una farfalla si alza a Tokyo ed uno Tsunami si abbatte su New York.

Come è stato girare in un paese islamico come il Marocco? Avete incontrato difficoltà?
Ho percepito una grande spiritualità nei paesi islamici ed una grande generosità nelle popolazioni locali. La presenza di elementi radicali in una cultura, non rende l’intera cultura radicale. Babel non è un film sulla politica dei politici, ma sulla politica delle persone. E’ un film che parla di padri e figli, di mariti e mogli, di barriere che si giustappongono tra di loro e di come superarle.

Il titolo biblico ed il tema della compassione farebbero pensare ad un film profondamente religioso. In realtà Dio e la religione sono essenzialmente estromessi per un film tutto sommato laico.
E’ un film su conflitti molto terreni, che colpiscono persone e non cattolici o mussulmani, americani o giapponesi. E’ un film su ciò che ci divide e su ciò che ci unisce, su ciò che ci rende esseri umani. La religione tende a polarizzare, crea differenze e la cosa non mi interessava. Ciò che ci unisce non è la felicità ma ciò che ci addolora. E’ la miseria che ci unisce in maniera empatica gli uomini.

 
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