Afrique, mon afrique…

[maurizio milo]
“…la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia, nella sua eredità spirituale, ma anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi apporti delle civiltà straniere.”
Leopold Sedar Senghor

Afrique, mon afrique… è un progetto di cooperazione culturale per aprire una finestra sulla grande vitalità artistica del Senegal di oggi in un terreno di scambio per sua natura paritario, dove non ci sono né ricchi né poveri, un ‘non-luogo’ estetico dove si può lavorare insieme per far crescere una nuova forma di collaborazione, una nuova interculturalità.
Abbiamo voluto offrire un ampio panorama della effervescente realtà culturale senegalese invitando per la prima volta in Italia compagnie e artisti già internazionalmente riconosciuti, soprattutto in Francia, e anche giovani che grazie a una fitta rete di collaborazioni e di attività multidisciplinari possano scambiare le loro esperienze e dialogare con la realtà giovanile italiana. Non solamente teatro e musica ma anche arte contemporanea e progetti creativi su quel terreno magmatico delle arti visive, nelle quali i senegalesi dimostrano una grande libertà di espressione e grande talento, coniugando mirabilmente la tradizione alle nuove tecnologie.
Molto importante anche il cinema visto che la cinematografia senegalese è, per l’elevato numero di film realizzati, la varietà tematica, la qualità, la personalità dei registi, una della più ricche ed interessanti del continente. Dopo diverse produzioni documentarie iniziate con l’indipendenza, 4 aprile 1960, è in Senegal che viene realizzato il primo film di fiction diretto da un regista africano. Si tratta di Borom Sarret (Il Carrettiere) di Ousame Sembene, regista nato in Casamance nel 1923, che ha conquistato fama mondiale con il suo cinema e i suoi romanzi tradotti in tutto il mondo: il suo lungometraggio Le mandat del 1968, è il primo film prodotto dal Senegal indipendente.
Dal primo film di Sembene ai giorni nostri il cinema senegalese ne ha fatta di strada, passando attraverso i temi classici che vanno a confluire in due generi distinti: i film così detti di “villaggio” e quelli di critica sociale. Questo è il motivo per il quale Finestre sul mondo – Afrique mon Afrique dedica un sia pur piccolo omaggio proprio a Ousmane Sembene, presentando tre film: Le noir de... (1966) cruda ed essenziale storia di una giovane donna senegalese che segue i suoi padroni in Francia dove si toglierà la vita per la desolazione; Camp De Thiaroye (1998) tragico racconto del periodo trascorso dai fucilieri dell’esercito coloniale nel campo di smistamento prima del ritorno a casa, durante il quale non verrà riconosciuto loro il giusto salario. Alla loro rivolta pacifica i francesi risponderanno con il fuoco compiendo una strage; e Faat Kine (1999) le vicende di una donna che rimasta sola, a prezzo di grandi sacrifici, riesce a far terminare gli studi ai figli.
Ma nell’ambito della rassegna il cinema non è solo Ousmane Sembene, vi sarà anche una selezione dei video presentati nel corso delle varie edizioni del Festival di Cinema di Quartiere di Dakar, che è divenuto in breve tempo un’importante vetrina per i giovani registi (fiction, documentari e animazione). Nella rassegna saranno presentati dieci film, dai documentari sulle periferie di Dakar a fiction che affrontano importanti tematiche sociali. L’edizione 2003 del Festival del Cinema di quartiere di Dakar ha visto la vittoria di Train Train Medina, un geniale cortometraggio d’animazione realizzato da Mouhamadou Ndoye, soprannominato Douts, utilizzando sabbia e cartone per racconta la vita del quartiere più popolare di Dakar. Douts sarà ospite del Teatro Metastasio e della Scuola di Cinema Anna Magnani, per tutto il mese di marzo, e presso la Scuola di Cinema avrà la possibilità di realizzare il suo nuovo video.

Ousmane Sembène

Sembène nasce nel 1923 a Ziguinchor, nella regione della Casamance, in Senegal, da una famiglia modesta di pescatori.

Non conclude gli studi e, dopo essere stato arruolato tra i fucilieri senegalesi nell’esercito coloniale durante la seconda guerra mondiale, compie svariati lavori: muratore, meccanico, scaricatore al porto di Marsiglia. Qui, si iscrive al partito comunista francese e diventa sindacalista.
Negli anni cinquanta si dedica alla letteratura, scrive il primo romanzo nel 1956: Le Docker noir (Lo scaricatore nero, Parigi, Èd. Debresse), romanzo autobiografico che racconta l’esperienza dei lavoratori africani all’estero.
A questo seguono O pays, mon beau peuple (O paese, mio bel popolo, Parigi, Èd. Amiot Dumont) del 1957, su un emigrato che ritorna in patria e cerca di formare i contadini alle nuove tecniche occidentali; Les bouts de bois de Dieu (Le punte di legno di Dio, Parigi, Èd. du Livre Contemporain) del 1960, sullo sciopero che ha interessato i lavori della ferrovia Dakar-Niger tra il ‘47 e il ‘48, che gli dà la notorietà; Voltaïque (Voltaico, Parigi, Èd. Présence africaine) del 1961, raccolta di racconti, L’Harmattan (Parigi, Èd. Présence africaine) del 1963, storia di un medico senegalese che cerca di coniugare medicina moderna e tradizionale africana; Véhi-Ciosane (Parigi, Èd. Présence africaine) del 1964, altra raccolta di racconti; Le Mandat (Il Vaglia, Parigi, Èd. Présence africaine) sempre del 1964, racconta di un uomo che riceve un vaglia, ma non può ritirarlo per la mancanza di documenti di identità; Xala (L’impotenza temporanea, Parigi, Èd. Présence africaine) del 1973 è la storia dell’impotenza temporanea di un rappresentante della nascente borghesia senegalese; Le dernier de l’empire (L’ultimo dell’impero, Parigi, Èd. L’Harmattan) del 1981, su un immaginario colpo di Stato organizzato dal presidente senegalese.
Tra il 1962 e il 1963 si rivolge al cinema, sua passione fin dall’infanzia quando creava scompiglio davanti all’ingresso delle sale per poter entrare gratis, ma che esplode dopo la visione di Olympia di Leni Riefensthal. Frequenta la scuola di cinema di Mosca, presso gli studi Gorky, sotto l’ala di Marc Donskoï e, poi, si dà alla regia.
Il primo film è del 1962: Borom Sarret (Il Carrettiere , 20’, b/n, 35 mm), primo film di un regista africano girato in Africa, premiato con il “Premio Opera Prima” al Festival di Tours, a metà strada tra Neorealismo e Nouvelle Vague, narra la triste giornata di un carrettiere, al lavoro per le vie di Dakar.
Nel 1963 gira anche un documentario prodotto dal governo del Mali, mai commercializzato: L’Empire de Songhai (L’impero Songhai).
Nel 1964 realizza un‘altra pellicola mai commercializzata, premiata al Festival di Tours e di Locarno nel 1965: Niaye (35’, b/n, 35 mm), storia di un capo villaggio che mette incinta la figlia. La moglie, per espiare la colpa del marito, si uccide, mentre il figlio si arruola nell’esercito francese ed impazzisce. Lo zio ne approfitta e lo induce ad uccidere il padre, per prenderne il posto. Un film di ambientazione esclusivamente rurale: l’unico riferimento all’Occidente è costituito dalla visita dell’ufficiale francese per riscuotere le imposte. L’obiettivo della denuncia di Sembène è il potere, tanto quello francese che interferisce e scavalca quello del capo villaggio, tanto quello di questa comunità, con le sue contraddizioni: condanna, difatti, il parricidio, ma non l’incesto.
Il 1966 è l’anno del primo lungometraggio di Sembène e della cinematografia africana con La Noire de... (La Nera di... 70’, b/n, 35 mm), che ha vinto il “Premio Jean Vigo”, l’ “Antilope d’Argento” al Festival delle Arti Negre di Dakar e il “Tanit d’Oro” alle Giornate Cinematografiche di Cartagine. Cruda ed essenziale storia di una giovane donna senegalese che segue i suoi padroni in Francia, dove si toglierà la vita per la desolazione.
Due anni dopo, nel 1964, dirige Mandabi (Il Vaglia, 90’, v. francese, 105’, v. wolof, col, 35 mm), vincitore di una “Menzione” e del “Premio Internazionale della Critica” alla Biennale di Venezia e del “Premio dei Cineasti Sovietici” al Festival di Tachkent, sulle peripezie di un uomo che riceve un vaglia dal nipote, ma non può ritirarlo, perché privo di carta d’identità.
Del 1969 sono due documentari: Traumatisme de la femme face a la polygamie (Trauma della donna di fronte alla poligamia) e Les derivès du chômage (Gli sbandati della disoccupazione).
Nel 1970 ne gira un altro su commissione del Consiglio Ecumenico delle Chiese statunitensi interessate ad un bilancio delle condizioni dei giovani senegalesi a 10 anni dall’indipendenza: Taw (Il figlio maggiore, 24’, col, 16 mm). Si seguono le vicende di un ragazzo alla ricerca di un lavoro, non più credente e attratto dalla cultura francese. Offrono lavoro al porto, ma egli non possiede i soldi per avervi accesso, così la madre gli dà da vendere un paio di pantaloni del padre (simbolo della spoliazione a cui è stata soggetta ed è ancora sottoposta l’Africa). Il giovane non si deciderà a compiere questo atto sacrilego per un africano e fuggirà con la fidanzata, rimasta incinta. Sembène fa un excursus sullo smarrimento della gioventù senegalese allo sbaraglio e ha dichiarato che, non soddisfatto, forse, un giorno ne farà un lungometraggio.
Nel 1971 realizza Emitai (Dio del tuono, 95’, col, 35 mm), che ha ottenuto la “Medaglia d’Argento” al Festival del Cinema di Mosca. È un film storico, per scrivere il quale Sembène ha tratto spunto da una leggenda di un’eroina senegalese, An Sitoë, che si era opposta, durante la seconda guerra mondiale, alla requisizione di riso da parte delle truppe francesi. La pellicola narra della resistenza a questo sopruso dell’esercito della Francia, che pretendeva la consegna delle scorte di riso, di un villaggio joola, un popolo della regione della Casamance presso cui il regista ha veramente effettuato le riprese. Mentre gli uomini interrogano gli dei sul da farsi, le donne si danno, stoicamente, a una resistenza passiva. Ancora attenzione all’universo femminile di cui viene messa in luce la forza, celata sotto l’apparente docilità.
Dopo due documentari di carattere sportivo del 1972: L’Afrique aux Olympiades (L’Africa alle Olimpiadi) e Basket africain aux J. O. du Münich R.F.A. (Basket africano ai giochi olimpici di Monaco R.F.A), nel 1975 trae un film dal suo romanzo: Xala (L’impotenza sessuale temporanea, 90’, col, 35 mm). È la storia di un uomo arricchitosi vendendo i terreni un tempo di dominio pubblico, che si sposa per la terza volta con una giovane donna, ma è colpito dalla xala, una forma d’impotenza temporanea (concetto esteso simbolicamente all’intera nuova classe borghese).
Guarirà solamente dopo un rito espiatorio: verrà coperto di sputi da quella povera gente di cui s’è preso gioco. Compaiono qui le tematiche più care all’autore: l’accusa alla borghesia senegalese di aver calcato le orme di quella francese, la poligamia con le sue implicazioni e la questione della lingua wolof, a cui viene preferito il francese. Per questo l’opera ha subito alcuni tagli da parte della censura del Paese.
Nel 1977 porta a termine Ceddo (Il popolo, 120’, col, 35 mm), film ambientato nel diciassettesimo secolo che narra l’islamizzazione forzata di una comunità già divisa tra la religione animista e quella cattolica. A tutto questo si oppongono i ceddo, gli uomini del rifiuto, che lottano contro questa imposizione. Una forte accusa contro l’assolutismo religioso ad opera di un regista che si dichiara materialista e ateo. Il film è stato proibito in Senegal con la scusa di non conformità del titolo all’ortografia ufficiale, in verità, perché una sferzata contro la potente classe dei marabut.
Nel 1988, insieme a Thierno Faty Sow, realizza Camp de Thiaroye (Campo Thiaroye, 150’, col, 35 mm), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, vincitore del “Gran Premio Speciale della Giuria”, del “Premio Unicef”, del “Premio Rivista Cinema Nuovo” e del “Premio Speciale Ciack d’Oro”. Tratta del periodo trascorso dai ”tiralleurs senegalaises” (così erano chiamati i fucilieri dell’esercito coloniale, anche se tra loro c’erano uomini provenienti da gran parte dell’Africa) nel campo di smistamento prima del ritorno a casa, durante il quale non verrà riconosciuto loro il giusto salario. Alla loro rivolta pacifica i francesi risponderanno con il fuoco, compiendo una strage. Episodio deplorevole della storia francese su cui Sembène pone l’attenzione per fare un’ “opera della memoria e dell’identità”. Apprezzabile, caso più unico che raro, la produzione, nata dalla cooperazione di Algeria, Tunisia e Senegal.
Guelwaar (115’, col, 35 mm) è del 1992: è stato anch’esso in concorso al Festival di Venezia, in cui ha conquistato la “Medaglia d’Oro della presidenza del Senato”. È la ricostruzione della morte di un leader cattolico, promotore del rifiuto degli aiuti internazionali che rendono l’Africa schiava e, per questo, ucciso e dell’equivoco sorto con la comunità musulmana per la sua sepoltura. Infatti, all’obitorio, è avvenuto uno scambio di salma con quella di un’alta personalità musulmana, che porterà allo scontro tra le due parti. Un film che vuole restituire al continente africano, umiliato dall’assistenzialismo, la dignità e la forza di risollevare da solo le sue sorti.
Faat-Kiné (120', col, 35mm) è del 1999, narra la storia di una donna abbandonata dal marito, rimasta sola con due figli, ai quali riuscirà, con coraggio e fatica, a far terminare gli studi. In questo film si scontrano e si incontrano diverse tipologie della società africana: la nonna, la nipote e la personalità moderna di Faat-Kiné.
Con Moolade, suo ultimo film, Ousmane Sembene racconta una storia di lotta ed emancipazione femminile che farà discutere molto gli uomini dell’Africa.
Il film di Sembene è stato girato in un villaggio di campagna costruito intorno ad una delle più antiche moschee dell'Africa occidentale: le donne del villaggio si ribellano contro gli anziani, tutti maschi, per proteggere alcune ragazzine che si rifiutano di sottoporsi alla pratica di mutilazione. La protagonista del film, interpretata da Colle Gallo Ardo Sy, è una donna che dopo essere stata mutilata ha perso due figli durante il parto ed è riuscita ad avere un'unica bambina con il taglio cesareo. Ora la donna, che è una seconda moglie, vuole impedire che la sua unica figlia venga mutilata.

Mouhamadou Ndoye Dout’s

Diplomato alle Belle Arti di Dakar, Mouhamadou Ndoye, soprannominato Douts, ha

esposto in varie mostre personali e collettive in Senegal ed in Europa.
Il suo lavoro si concentra prevalentemente sul tema del disordine architettonico dei quartieri popolari di Dakar.
Il punto di origine è la casa, come abitazione e come occupazione dello spazio, dell’orizzonte visivo e dell’orizzonte psicologico; dell’emozione e della memoria, e, naturalmente, il villaggio, il quartiere come agglomerato di case, nell’accumulo di materie, segnali, colori… Al di là del tema come soggetto della pittura di Ndoye, orientata a dire, a cantare la casa come luogo di riferimento psicologico, di concentrazione di memoria e delle voci di dentro, e al tempo stesso a denunciare i problemi abitativi e le loro degenerazioni, il degrado dei quartieri caotici e sovraffollati di Dakar, il suo lavoro e la sua personalità si esprimono soprattutto nel colore, nella pasta cromatica abilmente modellata, che “contiene” la casa, il villaggio, e ne fa elemento a volte di tenera evocazione nostalgica, altre di inquietudine dello spazio psichico, in una introversione dello sguardo che strappa il tema trattato ai limiti dell’oggettività paesistica e lo dilata a sentimento generale, a “canto generale” (direbbe Neruda) di una sensorialità accesa, ma ferita da ogni artificio, inquinamento, contagio, che degradino quell’emozione panica, in noi sempre più flebile e smarrita, ma in lui, senegalese ed artista, ancora prepotente, che ci fa natura nella natura. (Giorgio Segato, Padova, ottobre 2003).
Negli ultimi anni ha allargato il campo ad altre forme di espressione artistica. Train Train Medina cortometraggio d’animazione di soli 7 minuti è un geniale lavoro che utilizza sabbia e cartone per raccontare la vita del quartiere più popolare di Dakar. Il film ha partecipato a numerosi festival e ha vinto il primo premio al Festival di Quartiere di Dakar del 2003.