anno 1
numero 2
settembre 2004

Da Troy a Charisteas: una Grecia ritrovata.

[alessandro antonelli]

Lavori in corso. Interruzioni sul tratto Atene-Venezia.

Noi non siamo il messaggio. Siamo i messaggeri.
Il messaggio è l'amore.
Noi non siamo niente, voi siete il nostro tutto.

In Così lontano, così vicino di Wim Wenders un angelo scende dal cielo e sussurra il proprio mandato. Consapevole e solitario cerca il suolo. Il messaggio è l'amore. Cos'altro altrimenti. L'amore fatto non solo di baci e carezze, ma soprattutto di sguardi e pupille.

Un amore per le cose belle, uno stato di grazia che come un caleidoscopio prende colori e forme differenti a seconda di come lo guardi. L'amore è quello dei percorsi e delle emozioni, della capacità di stupirsi oltre duemila anni dopo Cristo per eventi impercettibili ad occhio nudo. Se penso a qualche universo parallelo nel quale tutto possa ancora avere un valore trascendentale e dove le emozioni prendano forma come la creta, dove possa ritrovare i miei antieroi e tornare a vedere con gli occhi di un bambino, penso al vecchio cinema del mio quartiere e al prato dietro casa mia dove rincorrevo il pallone con le ginocchia sbucciate. Adesso quando ho bisogno di loro so dove trovarli.
Cinema e calcio. Due cose da vedere prima che da fare. Due entità di risonanza popolare formalmente e apparentemente distanti. Ma se ci avviciniamo guardando con attenzione, tutto è più nitido.
Calcio e cinema si assomigliano. Hanno gli stessi tratti somatici, le stesse espressioni, ridono e piangono allo stesso modo. Entrambi uniscono globale e locale, territorialità e identificazione come poche cose in questo sistema solare. Anche gli interpreti, attori e giocatori, se osservati con cura, sono speculari. Protagonisti e antagonisti sullo stesso schermo, sullo stesso prato verde. "Il cuore è solo un muscolo impazzito…" recita Febbre dei primi Litfiba. Ma l'amore non passa solo dai ventricoli.
Il caso della Grecia agli Europei di Calcio 2004 parla d'amore. Indubbiamente. È la parabola sportiva più straripante di magia degli ultimi anni. È il messaggio. Ci ricorda come le cose possono spesso sfuggire alle teorie consumistiche del Nuovo Millennio e al volere dei palazzi di cristallo. Le leggi di mercato o quelle più ataviche di gravità fanno corto circuito quando si tratta di un pallone e della sua rotazione. Di un pugno di giocatori dati perdenti e con gli occhi lucidi. Charisteas, Dellas, Vryzas, Zagorakis, Karagounis. Riserve nelle proprie squadre di club o titolari in compagini minori nell'Europa che conta poco e niente.
L'uomo a volte fa scattare l'orgoglio come una catapulta e si lancia in aria col lodevole rischio di farsi male.
I lividi rendono immortali alcuni ricordi. Il cinema ancora una volta ci viene in aiuto come un fratello. In Fuga per la vittoria, indimenticabile film di John Huston del 1981, durante una partita di calcio per la propaganda nazista l'Undici della Resistenza torna in campo ad inizio ripresa rinunciando all'evasione e alla libertà dalla prigionia tedesca. Quel secondo tempo è amore. Qualcosa di non razionale, che frulla come un mulinello e non si arresta, diventa impresa proprio per la sua avversità al credo comune e alle dinamiche ponderate. La rovesciata a rete di Pelè fluttuante come un gabbiano è il simbolo della dignità di ognuno di noi. "Il vigliacco muore mille volte, il coraggioso una soltanto" diceva Shakespeare.
Ribadendo un concetto espresso in altri luoghi narrativi, mi piace pensare che registi e allenatori mettano in scena allo stesso modo uomini e figure come un cast, decidendo di loro percorsi e traiettorie, zone d'azione, ruoli e copioni. Ognuno col proprio stile e attraverso scelte tecniche personali, amalgamando un cast, fortificando un gruppo di corpi e cervelli per uno scopo comune, che a seconda dei casi prende il nome di film o partita.
Il cinema e il calcio, registi e allenatori, attori e giocatori hanno lo stesso odore, lo stesso profumo. Giocare ci rende autentici. Immedesimarsi e far finta di essere un altro lo facciamo sin da piccoli. Come infilare le scarpette e dare calci a una sfera dopo la merenda.
Calcio e cinema sono giochi con i quali tornare bambini appena ce ne sporchiamo le mani, come appena infilate nel barattolo della marmellata della nonna.
Jorge Valdano, campione del mondo con l'Argentina nel 1986 ed ex direttore generale del Real Madrid parla di Juan Sebastian Veron, "[…] Il suo è un gioco cinematografico, un nomade del centrocampo dal passo a campo lungo". E ancora su Zinedine Zidane "È un elefante col cervello di una ballerina. Ha una visione panoramica amplissima e sa sempre cosa fare. L'hard disk che ha nella testa sembra mettere insieme la storia del calcio europeo e quella del calcio sudamericano; il risultato è un gioco universale". Un giocatore che vede in 16:9 e sintetizza più ruoli in uno non può che appartenere anche al cinema e ai suoi movimenti.
Ma mentre l'universo del pallone si svende agli sponsor più ingordi, si prostituisce in tv per i diritti d'immagine e va a braccetto con l'infertile mondo della tv, qualcuno ha iniziato a chiamare il gioco del pallone col suo nuovo nome.
Adesso lo chiamano Spettacolo. Niente calcio grazie. Il cinema di un certo tipo, ultimamente e con troppa frequenza, si avvale di produzioni da capogiro e budgets plurimiliardari oscurando i contenuti. Non è da meno dunque. Ci scaraventa sul grande schermo film girati in posti inesistenti, personaggi che abitano i non luoghi e si accampano nelle nostre sale illudendoci come astronauti in sala giochi. Troviamo ancora la Grecia. Troy di Wolfgang Petersen riesuma una civiltà ellenica troppo hollywoodiana, tra improbabili dialoghi e aneddoti fasulli. Il cast da botteghino, l'assenza degli Dei nella pellicola e lo stravolgimento narrativo fanno di questo film l'emblema di un'infedeltà collaudata al cinema più sincero. Servono spettatori pensanti. Servono in sala atleti attenti e scattanti. Servono nuotatori senza braccioli. Troppo facile giocare a shangai con avversari affetti dal morbo di Parkinson.
Ma nonostante Petersen, lassù il 4 luglio qualcuno sgrana gli occhi. L'Olimpo è incredulo. Zeus e il club degli Dei guardano dall'alto l'impresa di comuni mortali che contro ogni possibile immaginazione espugnano lo Stadio della Luce, il Da Luz di Lisbona, accendendo il buio sul popolo lusitano e piegando i padroni di casa davanti al proprio pubblico, conquistando non solo il titolo di Campioni d'Europa ma una sacrosanta fetta di storia. Le nuvole sono un ottimo luogo per sognare. Ma in terra si scorre meglio, è qui che accadono i veri miracoli. È qui che gli angeli di Wenders vengono ad ammirarci e a prendere forma. Quella umana. È qui che il calcio diventa poesia anche in mezzo al business più cruento. Charisteas, centravanti da area di rigore è con i suoi colpi di testa il simbolo vincente di questa Grecia, l'(anti) eroe senza tempo ascritto ad una mitologia che arriva fino ai giorni nostri. Vedere in semifinale Grecia, Portogallo e Repubblica Ceca è una vittoria per lo sport. È una piccola poesia in versi. La vecchia Europa di secolare dominio calcistico scolorisce di fronte all'umiltà e alle virtù di questi centurioni che dopo la sentenza Bosman del 1995 hanno navigato come Ulisse da sponda a sponda in campionati a loro non familiari, rubando segreti e meccanismi, lasciando la patria per ritrovarla a metà strada.
Italia, Francia, Inghilterra, Germania, Spagna. Cancellate dalla loro stessa presunzione, dalla gloria attesa per troppo tempo su allori di vittorie passate. Tradite da finti giocatori senza orgoglio oltremodo presi dallo star system televisivo e dalle acconciature alla Shirley Temple. Piccole nazioni si sono rannicchiate, si sono cucite sul petto la patria e un motivo e sono partite per la terra del calcio. Lo stesso Portogallo dopo l'esordio desolante con gli achei di Otto Rehagel, ha visto la tristezza nei volti della gente, il pianto di un paese. Rimboccatisi le maniche sono giunti in fondo con le parole di Figo "In finale oggi non ci va una squadra, ci va un popolo intero". Il cinema non trasmette forse la stessa solenne forza d'animo? Non muove masse e ideali allo stesso modo? Lo specchio ci aiuta a riflettere.
Probabilmente non ha vinto il bel gioco agli Europei di quest'anno. Il calcio degli ellenici non è stato né affascinante né offensivo; i cechi sotto questo aspetto meritavano più di chiunque altro il titolo per sfrontatezza, coraggio e tattica propositiva. Ma se si parla di bellezza, in questo caso la troviamo proprio nella sua assenza. È semplicemente bello ciò che è accaduto. Consapevolezza dei propri mezzi e bruttezza estetica hanno trasformato l'anatroccolo in un cigno biancoceleste. La Grecia ha avuto stile. Coerenza. Umiltà. Merita la migliore interpretazione. "Chi non possiede uno stile non crede in nulla. Nemmeno in se stesso", scriveva qualcuno. Giustamente.
A settembre ci aspettano due lungometraggi, due diverse sfide al passato. Alien contro Predator di Paul A.W. Anderson, che riprende e incolla miseramente due gloriose figure tra horror e fantascienza e Ora e per sempre di Vincenzo Verdecchi, sulla storia del Grande Torino. Metterli a confronto non avrebbe senso.
A ciascuno il suo suggeriva Leonardo Sciascia, ma i film da seguire alla pagina 777 per i non viventi hanno già stancato. Preferisco puntare sul fantasma di Valentino Mazzola e il profumo delle maglie granata. I grandi uomini si meritano grandi ricordi. Superga non è solo una marca di scarpe da tennis.
Quest'anno, inoltre, le Olimpiadi 2004 torneranno dove sono nate. Tra le mura di Atene. Restituiranno alla geografia un legame col passato e chiuderanno in parte un cerchio millenario tra antichità e mitologia.
La Storia tra sport e cinema. La strada che unisce due contee della stessa regione sentimentale, un ponte lungo come l'orizzonte che collega stati d'animo, gesta eroiche e infarti comuni.
Dagli sfondi ellenici del kolossal di Wolfgang Petersen a quelli lagunari della prossima Mostra del Cinema.
La 61esima. Quella di Marco Müller. Dai campi di battaglia digitalizzati di Troy, ai campi di calcio in erba, passando per le piste di atletica della capitale greca. Ultima fermata Lido di Venezia. Suggestivo proscenio di un cinema che tentenna come una moneta e chiede un volto.
Da Atene a Venezia dunque, passando per lo svincolo dei Giochi Olimpici. Una Grecia ritrovata, una Venezia da riscoprire. Noi non perdiamoci. Di notte sarà bene accendere i fari per vedere cosa ci aspetta.
Se un'indimenticabile azione di contropiede o un sottile e fascinoso controcampo. L'importante è giocare.