anno 1
numero 2
settembre 2004

Tra digitale e Legge Urbani: una riflessione su Cinema Italiano e futuro dell’Ottava Arte

[giuseppe panella]

‘Fu durante un Consiglio dei Ministri che Giolitti constatò l'importanza pratica e morale del cinematografo: quando scoprì che Filippo Meda, suo Ministro del Tesoro, ne era appassionato. "È una mania", concluse.‘
Pietro Bianchi

1. Temo che con l'avvento della Legge Urbani sulle 'provvidenze' al cinema (in realtà, i benefici saranno solo per i produttori e solo per 'alcuni' produttori - come ha già spiegato Alessandro Antonelli nello scorso numero de "Il Grido") e con la sempre più frequente utilizzazione delle tecnologie digitali nella realizzazione e produzione di film si apra una stagione molto difficile per il cinema italiano. Le grida al recupero e alla riscossa che di solito accompagnano l'uscita di un film a capitale nazionale che al botteghino incassa due Euro più del (magro) solito non debbono trarre in inganno chi voglia fare un'analisi più attenta. Il cinema italiano rischia di essere schiacciato tra le sue due tendenze maggiormente contraddittorie: la vocazione 'autoriale' che impedisce la realizzazione di film 'di servizio' che non siano fiction per la TV (in Italia tutti i film usciti in questi ultimi anni sono il frutto di sceneggiature proposte dagli autori e non agli autori) e la morte del 'film di genere' che costituivano tradizionalmente la migliore palestra per i giovani registi in via di consolidamento. Girare un horror o un western era il necessario 'rito di passaggio' di autori poi divenuti capaci di trovare una via propria nel futuro anche immediato.
L'aneddoto su Giolitti citato sopra può essere considerato oggi soltanto un episodio simpatico e istruttivo che mostra, in maniera lampante, come il cinema abbia dovuto faticare per imporsi come componente a pari dignità delle altre nel campo delle relazioni che articolano e strutturano il sistema dei referenti culturali della società italiana. L'atteggiamento di indifferenza (se non di blando disprezzo) nei confronti del mezzo cinematografico da parte del grande statista piemontese, non può essere considerato come un puro episodio di disinteresse culturale personale.
L'unico momento in cui l'industria cinematografica italiana venne presa sul serio dai politici al governo che ne gestirono in proprio le crisi strutturali di produzione resta la parentesi della politica culturale fascista. Questo, ovviamente, va detto tenendo conto poi di tutte le conseguenze negative che ha comportato sul suo sviluppo generale, non ultima l'imposizione di una censura molto severa sui contenuti e sulle forme stesse di realizzazione del prodotto cinematografico - un problema ancora oggi non avviato a soluzione definitiva.
L'ambito attuale di riferimento per l'educazione all'immagine, in ogni modo, resta pur sempre solo quello della dimensione televisiva. Le immagini virtuali del medium catodico risultano di gran lunga egemoni per la formazione dell'immaginario collettivo della società. Nonostante le geremiadi di tanti grandi, piccoli e minimi intellettuali contro il condizionamento della 'cattiva maestra televisione' biasimata da Popper, è praticamente solo attraverso il piccolo schermo che l'educazione all'immagine dell'immaginario collettivo (ciò che appunto sulle immagini si forma) finisce con il passare e consolidarsi.
Il cinema resta la grande assente nelle politiche di rapporto e di riassestamento della soggettività nell'ambito delle analisi più generali riguardo le prospettive della formazione culturale della società.
2. Il problema da affrontare non è tanto quello del pubblico come entità astratta (e considerata solo in relazione alla sua capacità di consumo) quanto quello della sua concreta soggettività da investire nella sua riqualificazione in termini di attenzione e di interessi culturali.
Di questa necessità si deve parlare al di là del puro computo della quantità di biglietti venduti o dell'incentivo pubblico alla produzione nazionale. Non è soltanto il problema della diminuzione del pubblico a essere stringente e drammatico quanto quello del suo impoverimento in termini di scelta e di 'destino' culturale.
La necessità di porre l'accento sulla qualità della fruizione soggettiva della produzione cinematografica diventa oggi la questione fondamentale del rapporto tra la sua dimensione produttiva 'tradizionale' e le strutture che si occupano della proposta culturale e commerciale che a quest'ultima deve far seguito. La funzione del linguaggio cinematografico è, infatti, da sempre strettamente legata alla sua capacità di trasformare e di ricomporre in un orizzonte di visibilità condivisa le differenze, le asperità e le strozzature di percorso che definiscono l'emergenza di nuovi soggetti e di nuove condizioni di vita.
Il cinema è da sempre un laboratorio privilegiato per leggere attraverso immagini definite e coerenti i percorsi e le contraddizioni di una realtà altrimenti sfuggevole e indefinita.
Le qualità formali del mezzo espressivo e delle sue capacità di costruirsi come momento di comunicazione culturale emergono soltanto in presenza di prodotti che non siano esclusivamente al servizio della logica di consumo del cinema-merce.
È per questo motivo allora che se una legge come quella firmata dal Ministro Urbani privilegia esclusivamente quest'aspetto e sembra muoversi soltanto in tale direzione, l'utilizzazione del digitale e delle sue tecnologie più avanzate non rappresenta sicuramente quella soluzione adeguata alla crisi della visione legata ad una soggettività urbana e "mediatizzata" sempre meno ricca di contenuti critici e socialmente qualificati con cui viene presentata e propagandata.