anno 1
numero 3
novembre 2004

Presidenti in 35mm

[giuseppe panella]

È andata male, purtroppo. La battaglia di Michael Moore contro Bush e la sua rielezione a Presidente degli Stati Uniti non ha avuto successo. Il cinema - di fronte alla pressione psicologica della paura e della disinformazione su un'opinione pubblica arretrata e bigotta - non è riuscito a svolgere quella funzione di risveglio delle coscienze e di recupero di consapevolezza che si riprometteva.
Eppure Fahrenheit 9/11, soprattutto nel primo tempo, è un gran bel film: teso, graffiante, spesso sarcastico (le teste di Bush, Cheney e Blair montate sui corpi dei cowboys di Rawhide che partono a spron battuto per "farla pagare" ai

nemici dell'America sono impagabili caricature dei loro possessori).
Certo, nel secondo tempo, dopo il passaggio nelle periferie dell'America provinciale e rurale, dopo il ritorno a casa del figliol prodigo Moore alla natia Flint in Michigan, le interviste, le grida e le lacrime delle madri in lutto possono sembrare più televisive. Ma Moore, maestro dell'informazione televisiva capace di insegnare a distinguere la verità sgradevole dalle menzogne dorate degli apparati istituzionali, si riprende con la scena finale in cui chiede ai deputati del Congresso di mandare i loro figli a combattere in Iraq: una sequenza al vetriolo che lascia con la bocca amara chi crede (ancora) alla buona fede dei politici.
Fahrenheit 9/11
è però un film importante soprattutto perché in esso, per la prima volta, un Presidente degli Stati Uniti è messo in scena con il suo nome e cognome e su di lui si da un giudizio ben preciso al di fuori della fiction più o meno ben documentata.
Facciamo un esempio: JFK (1991) di Oliver Stone è un film che mescola con grande abilità personaggi inventati e personaggi noti legati a quella vicenda (dal procuratore distrettuale Garrison al senatore Long a Clay Shaw, il presunto mandante dell'omicidio Kennedy). Le due parti della ricostruzione sono intrecciate con abilità attraverso il supporto narrativo offerto dagli spezzoni del film di Zapruder che riprese in diretta quel che si vedeva della morte del presidente americano. Ma, nonostante la direzione di Stone e l'eloquenza di Kevin Costner nella sua requisitoria, il risultato tocca poco gli spettatori: li diverte, li avvince, li annoia magari, ma non li convince.
Lo stesso avviene con il micidialmente lungo Nixon del 1995 (sempre diretto da Oliver Stone) - eppure, rispetto a Tutti gli uomini del Presidente (1976) di Alan J. Pakula che pure si concentra sugli stessi personaggi, l'effetto è quello di un film posticcio che vorrebbe mostrare tutto e finisce poi contemporaneamente per nasconderlo. Perché? Forse perché nel film di Pakula il Presidente non viene mai mostrato. E il suo volto resta nascosto come quello dell'informatore (noto come "Gola Profonda") che ne denunciò la complicità nell'affare Watergate ai giornalisti del "New York Times".
Il cinema americano non è mai stato capace di mostrare un Presidente (realmente vissuto o meno) senza trasformarlo in un feticcio.
Il fatto è che c'è più "verità" - da un punto di vista cinematografico, s'intende - in film di pura fiction quali Azione esecutiva (1973) di David Miller dove, senza mettere in scena Kennedy e mostrandolo solo in filmati di repertorio, il suo omicidio viene spiegato in base a ben precise analisi politico-sociali e dove, a differenza che in JFK, esse appaiono assai più credibili. Nell'ultimo romanzo di Nicholson Baker uscito in Italia (Checkpoint, Milano, Mondadori, 2004), uno dei protagonisti racconta dettagliatamente al suo interlocutore telefonico come ucciderà Bush per cambiare il corso della storia americana.
Moore ha provato a fare lo stesso abbattendo metaforicamente il feticcio presidenziale. Solo in questo modo, l'America "vera" sarà in grado di resistere all'influsso negativo del "marcio" che pervade le "stanze del potere".