Quando si è sparsa la voce che Oliver Stone avrebbe girato un film sull’11 settembre, tutti a pensare ad un’opera verità, magari avvalorante le diverse tesi per cui l’11 settembre altro non è stato che una nuova Pearl Harbour, organizzata dai servizi segreti americani per giustificare l’ondata imperialista dell’Amministrazione Bush.
I sostenitori del complotto, rimarranno delusi e reagiranno ferocemente alla visione di un film che invece percorre i canonici sentieri della classica parabola americana. Gli Stati Uniti d’America hanno nel loro DNA una congenita propensione all’ottimismo, che li porta a scovare o creare eroi anche nelle situazioni più drammatiche; a riaffermare i valori fondanti della società americana, anche nei momenti più catastrofici della loro storia. E’ accaduto per Pearl Harbour appunto, per l’omicidio Kennedy, per il Watergate; sta accadendo oggi, a distanza di 5 anni, con l’11 settembre.
Oliver Stone non sposa lo stile secco, asciutto, semi-documentario di Paul Greengrass nel suo United 93, ma costruisce il più classico dei film hollywwodiani, dove uomini qualunque si trasformano loro malgrado in eroi. Uomini qualunque che in occasione dell’11 settembre non avevano fatto nulla di straordinario, se non rispondere ad una chiamata e trovarsi nel posto sbagliato (la torre uno del World Trade Center) al momento sbagliato (il crollo della stessa). L’eccezionalità della vicenda dei due agenti del Dipartimento di Polizia dell’Autorità Portuale di New York, il sergente John McLoughlin (Nicholas Cage) e l’agente Will Jimeno (Michael Pena) risiede nell’essere riusciti a sopravvivere sotto le macerie delle due torri per 12 ore dal crollo del complesso. I sopravvissuti numero 18 e 19 del World Trade Center. Un solo ultimo uomo fu estratto ancora vivo dopo di loro, il numero 20.
Una storia vera narrata attraverso i ricordi dei protagonisti di quella vicenda, i due agenti e le rispettive mogli, che alterna la tragedia nazionale/mondiale, con quella individuale/privata dei protagonisti. La prima funziona bene e gli iniziali 20 minuti sono cinematograficamente molto coinvolgenti.
La città di New York che si risveglia e con lei i suoi abitanti. I treni affollati dai pendolari, le yellow car che popolano le strade di Manhattan, le luci rosse del sole che accendono le mura in mattoni dei vecchi edifici come le finestre a specchio dei moderni grattacieli. Ma un’ombra improvvisa oscura quella luce ed un boato come quello di un terremoto scuote palazzi, strade e certezze. Una nube nera, intensa ed acre si spalma sul cielo terso di quel martedì mattina, e fogli bianchi iniziano a scendere come coriandoli sulle strade del Downtown. L’immensità della tragedia non si avverte subito e le reazioni delle persone sono più che altro incredule e sbigottite piuttosto che terrorizzate. Ma pian piano che ci avviciniamo al luogo della catastrofe, all’interno di un autobus insieme ad un gruppo di agenti, la tragedia inizia a prendere forma e sostanza, mostrando il suo vero volto fatto di fuliggine, sangue, corpi smembrati.
Segue il crollo e lo schermo si spegne, per riaccendersi dopo pochi secondi in mezzo a calcinacci, sangue, barre di ferro contorte e polvere… polvere ovunque. Sepolti vivi. Qui inizia la dimensione privata della vicenda in un intersambio di racconti, emozioni, sogni ed allucinazioni tra i due protagonisti nella speranza di rimanere svegli e quindi vivi. L’atmosfera claustrofobica dei due sepolti vivi, che anche iconograficamente fa pensare ad alcune messe in scena di ‘Giorni felici’ di Beckett, è alleviata dal racconto delle reazioni in superficie di moglie e familiari. E’ la parte più debole della pellicola, con gocce di commozione sparse ad hoc e pronte a esplodere secondo una tempistica prevedibile ma perfetta. I ricordi, i racconti, le speranze e le delusioni che i due si scambiano sembrano un concetrato di luoghi comuni, di stereotipi familiari visti così tante volte sullo schermo da porci una domanda semplice ma a suo modo paradigmatica: è il cinema ad aver saputo avvicinarsi così tanto alla vita reale delle famiglie americana tale da identificarsi con queste o sono le famiglie americane, i loro modi di vivere, parlare e pensare ad essere stati così condizionati dal potere delle immagini da rispecchiarsi su modelli precostituiti? queste ad essere state così considizionate dal potere delle immagini da rispecchiarsi su modelli precostituiti dalla fabbrica di celluloide? In due parole: è il cinema che assomiglia alla vita o la vita che assomgila al cinema?
Il film è stato accusato fuori gli Stati Uniti di essere un insieme tronfio di patriottismo becero e moralista, un’opera militante al servizio dell’attuale Amministrazione. Vi sono elementi di nazionalismo spinto, inutile negarlo, vedi alcuni passaggi narrativi e personaggi in particolare come la figura del Marine, ma Stone riesce a dosarli ed annacquarli nel flusso narrativo alleggerendone portata e peso.
Un’opera imperfetta, tappa della curva discendente nella carriera di Oliver Stone – comunque migliore dell’inguardabile Alexander -, che se da una parte non è esente da un certo formalismo etico, morale e drammaturgico, dall’altra riafferma la forza anche evocativa della narrazione di matrice statunitense.
Titolo originale | id. |
Regia | Oliver Stone |
Sceneggiatura | Andrea Berloff |
Fotografia | Seamus McGarvey |
Montaggio | David Brenner, Julie Monroe |
Scenografia | Jan Roelfs |
Costumi | Michael Dennison |
Musica | Craig Armstrong |
Cast | Nicolas Cage, Michael Peña, Maggie Gyllenhaal, Maria Bello, Stephen Dorff, Jay Hernandez, Michael Shannon |
Produzione | Paramount Pictures |
Anno | 2006 |
Nazione | USA |
Genere | Drammatico |
Durata | 125' |
Distribuzione | UIP |
Uscita | 13 Ottobre 2006 |
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