Il documentario “Quando c’era Berlinguer” (ben fatto, commovente per i nostalgici, informativo per gli agnostici, consolante per gli antagonisti), spinge a una riflessione che va oltre lo specifico filmico ed entra in quello politico.
Tu Alberto Franceschini che parli da una terrazza romana, elevato al rango di testimone del clima politico di quel tempo e addirittura al rango di storico, uno che la storia l’ha fatta in prima persona, a un certo punto sostieni che l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, ha centrato l’obiettivo: far cadere il compromesso storico. Da via Caetani in poi quel progetto non sarà più possibile, la coesistenza tra le due anime del Paese è morta per sempre. E lo sottolinei con un ghigno o comunque un lampo di soddisfazione sul volto. Tra un’Italia riformista e una rivoluzionaria, tu avevi scelto. E quella scelta l’hai portata fino in fondo. Sarai contento di aver consegnato, con questa lucida e spietata visione del futuro il mondo nelle mani del consumismo più spinto, del quale si vedono i riflessi nei tuoi occhialetti di marca.

Da Berlinguer al berlusconismo, il passo è stato assai breve. E la tua lotta, i morti, la sofferenza, le famiglie distrutte, il dolore fisico e morale che hai scientemente seminato sull’onda di un’idea trasformata in risentimento e odio freddo, hanno avuto come risultato un Paese dominato dal profitto, dal narcotraffico e dal desiderio violento di possesso (uomini-donne-oggetti-corpi), dove l’unica cosa che manca e che non si può comprare o desiderare è l’idea che siamo uguali e che il denaro non conta, ma conta la felicità.
Perché tu, Franceschini, hai trasformato la felicità di sperare in un mondo migliore in legge di natura, dove vince sempre il più forte.
Quello che spara ammazza e ride soddisfatto.