Wimbledon

Bisogna fare chiarezza rispetto all’installazione di arte contemporanea che si è svolta domenica 14 luglio 2019 a Wimbledon, Central Court, Londra. I due performer, Federer e Đjoković avendo a disposizione una racchetta e qualche pallina si sono esibiti in quattro ore e cinquanta minuti di evoluzioni plastiche, disegnando nell’aria traiettorie, ellissi e circonvoluzioni nelle quali la dinamica e la creatività riuscivano a rappresentare lo spirito delle forze del mondo per una volta non in contrasto ma fuse in un unico insieme armonico.

Bisogna fare chiarezza perché il tennis non è tifo becero come il calcio, è contemplazione, metafisica diceva Wallace, ma più ancora arte con le regole precise di uno sport in cui alla fine esiste un vincitore e un vinto. Allora siccome tutto il mondo tifa per Federer, è stato sottolineato come lo svizzero sia l’unico che riesce vincere anche quando perde.

Ecco questa retorica dà fastidio, è trita, irrispettosa e anche un po’ scontata. Ha vinto Đjoković l’antipatico e basta.

Altra cosa è analizzare i motivi di questa vittoria.

Anche qui i luoghi comuni si sprecano: la saldezza mentale vince contro tra la classe pura, la forza alla fine prevale sull’eleganza, le gambe sono più importanti dell’anticipo.

Niente di tutto questo. È il Caso, il grande artefice del caos, che ha determinato il finale di partita.

Quando Federer ha fallito due match point con servizio a favore, non è stato perché è mancata la determinazione o la saldezza psicologica, oppure ancora il temperamento o l’attitudine a vincere, o, peggio, la paura di vincere. Federer ha vinto 20 grandi Slam e non so quanti master e tornei e partite singole: è un discorso che fa ridere, è forse il miglior tennista di tutti tempi e punti che nove volte su dieci conclude a suo favore, le ha sbagliate. Non c’è una ragione specifica, non c’è sempre un motivo noiosamente razionale. Proust parlava di “intermittenze del cuore” per spiegare come certi ricordi li puoi accogliere e comprendere a distanza di tempo solo se non usi come filtro il cervello, la razionalità, ma ti lasci andare ad essi senza rete, con il cuore appunto.

E così è stato per la finale di Wimbledon 2019, nessuna spiegazione, è stato il Caso. Nel film dal titolo (non a caso…) “Match Point” di Woody Allen, all’inizio una pallina corre su una rete di un campo da tennis: dove andrà a finire? In quale parte del campo? Chi farà punto e chi lo perderà? La vita è sospesa in queste frazioni di secondo che durano un’eternità e determinano i destini del mondo.

È il Caso che ha fatto vincere Đjoković, è il Caso che ha fatto perdere Federer. Ma è un dettaglio in fondo, perché loro, Federer e Đjoković non sono frutto del caso, e solo loro (con Nadal), potevano improvvisare una performance che appena terminata era già scolpita nel tempo.