Un cinema abbandonato, fatiscente, all’apparenza isolato dal mondo. Uscite di sicurezza sbarrate da tavole di legno inchiodate. Nella penombra la silhouette di una giovane donna: Laura, seduta al centro della platea di quell’ex sala cinematografica, tra poltrone divelte e polverose. Davanti a lei, gigantesco, campeggia il primissimo piano del volto di un uomo, proiettato sul vecchio schermo strappato e sporco di muffa. L’uomo parla guardando in camera, ancora sudato e affannato per l’omicidio che dice di aver appena commesso. Confessa di essere un serial killer e di aver ucciso quella che si rivelerà la prima delle sue diciotto vittime…

La donna, legata e imbavagliata, assiste inerte all’inquietante proiezione finché non si accendono le luci e quello stesso uomo, serafico e sorridente, appare accanto a lei. «Tra colpi bassi e cedimenti psicologici, scabrose verità, menzogne e calunnie infamanti, appare chiaro – ci rivela il regista Luciano Melchionna – che i due in realtà si conoscono molto bene».

Parole incatenate” è il titolo di questo thriller psicologico scritto dal talentuoso autore spagnolo Jordi Galceran, di cui avevamo apprezzato il Metodo Gronholm. In “Parole incatenate” segna un secondo passo nel personale viaggio dell’autore nello studio della materia e psicologia umana. Se nel “Metodo” attraverso un elaborato ‘gioco di ruoli’ a cui si sottoponevano quattro candidati per un posto da Direttore Commerciale di una multinazionale, si indagava sulla maschera sociale che si indossa per rendersi accettato/accettabile dalla società con dissertazioni tra l’essere e/o l’apparire in “Parole” Galceran fa un passo in avanti. Idaga la perversione dell’animo umano, la malvagità che sottende i rapporti umani (di coppia nel caso, ma non solo), la mancanza di empatia, la gioia dell’umiliazione a cui un essere umano sottopone il suo simile. L’autore riduce rispetto al “Metodo” il numero di personaggi in gioco (da quattro a due) chiudendoli in uno spazio sempre più angusto (belle le scene di Alessandro Chiti, scaldate dalle luci di Camilla Piccioni) in cui tutto viene esasperato (forse troppo) per apparire esemplificativo.

Claudia Pandolfi e Francesco Montanari i protagonisti; un gatto che gioca con il topo in un continuo (troppo?), ribaltamento di ruoli e pesi che inizialmente spiazza e seduce, ma che reiterati finisce per apparire ridondante. La Pandolfi non convince con una recitazione esasperatamente sopra le righe, urlata, senza variazioni di sorta che la mantengono al medesimo livello emotivo dall’inizio alla fine. Una spanna sopra ma anche lui non completamente convincente Francesco Montanari, capace di calibrare meglio i toni recitativi di un personaggio più complesso e quindi interessante che domina la scena in lungo ed in largo. È il vero perno focale della storia. Ma al di là della performance attoriale, è il testo medesimo a non convincere pienamente, dalla disparità con cui vengono curati i due personaggi (bene quello maschile, meno il femminile) al lungo ed interminabile finale fatto di chiusure e repentine riaperture che sfiancano, al termine dell’unico atto dello spettacolo, la pazienza dello spettatore.

Il pubblico mostra di gradire a metà, con applausi ripetuti ma non entusiasti

TitoloParole incatenate
AutoreJordi Galceran
RegiaLuciano Melchionna
MusicheStefano Fresi
SceneAlessandro Chiti
CostumiMichela Marino
LuciCamilla Piccioni
InterpretiClaudia Pandolfi, Francesco Montanari
ProduzioneARTU' - Ente Teatro Cronaca
Anno2013
Generethriller
Applausi del pubblicoRipetuti