Autore
Thomas Bernhard
Regia
Nadia Baldi
Scene
Nadia Baldi
Costumi
Nadia Baldi
Luci
Giuseppe Falcone
Grafica
Giovanni Natiello
Musica
 Marco Betta
Quello de “Il Soccombente” è un mondo onirico, un viaggio psichico. La rielaborazione registica di Nadia Baldi, che ne propone una versione surreale, è una fedele riscrittura ossessiva del romanzo di Thomas Bernhard. L’opera, pubblicata nel 1983 affronta il tema dell'amicizia di tre pianisti a Salisburgo: l'io narrante, Wertheimer e Glenn Gould allievi di Vladimir Horowitz. Sebbene i primi due siano eccellenti esecutori, quello che brilla per genialità ed estro è Gould. Gli altri lo sanno, l’hanno ascoltato mentre suona Bach, si accorgono subito della sua superiorità e sconfitti abbandonano per sempre la musica.

Mentre l’io narrante accetta con coraggio l’addio al pianoforte, Wertheimer non solo rinuncia del tutto alla musica, ma soccombe alla vita, suicidandosi; è lui il Soccombente, colui che si è fatto vincere dalla debolezza dell’invidia, dal non riuscire ad essere. E sulla scena, al centro della quale una seggiola verde da barbiere segna il confine fra conscio e subconscio, i sentimenti di rimpianto sono tangibili su un apparente sfondo scuro. In scena un uomo di schiena: è l’io-narrante (Roberto Herlitzka), che apre il monologo sul tempo trascorso, su quello che ha perduto o rifiutato. Un’autobiografia forse, una confessione probabilmente; un personaggio-scrittore, il Bernhard autore, narratore. Sulla seggiola da barbiere, di schiena una donna-fantoccio (Marina Sorrenti), un personaggio di cui non si ha traccia nel romanzo di Bernhard ma che nella regia della Baldi potrebbe simboleggiare il subconscio. Ha capelli vaporosi e chiari che le coprono il volto, indossa un vestito bianco e scandisce il passato remoto del verbo “pensare”. Tutto è perturbante. La stessa donna è la coscienza del narratore, la memoria pianistica, la sua disperazione, inquieta. Sembra viva quando si libera dalla postura immobile, somigliante a una bambola meccanica quando s’inerpica sulla lavagna del fondo scenico, per scarabocchiarla. Nella parola assillante del personaggio-narratore, perfino nella musica di Bach emerge l’estetica del perturbante.

L’io- narrante rivive i momenti passati con gli amici, ne analizza chirurgicamente i caratteri, la filosofia e si prende gioco degli aforismi di Werheimer, come se volesse rinvenire nei ricordi un impulso, una spiegazione. E si arrovella anche lei/lui. Lui che è la giuntura per gli altri, il punto esatto dove il passato tocca il presente, in un luogo senza tempo. Le lampade pendono dal soffitto, hanno una luce calda quando si parla del genio Gould l’unico a ricreare il Goldberg di Bach, che sta al suo Steinway dodici ore ininterrotte, che adora la parola “autodisciplina” e odia “imprecisione”. Diventa verde freddo quando si palesa il pensiero di Wertheimer, della morte, del suicidio, della sconfitta. Altamente sviscerata, quest’opera misantropica è il prodotto di un lavoro enorme, che va dalla scenografia raffinatissima, agli adeguati arrangiamenti musicali di Marco Betta, fino agli attori a cui va l’elogio più grande: a Roberto Herlitzka per la magistrale interpretazione e a Marina Sorrenti per la capacità espressiva del corpo.

L’esistenza problematica dei personaggi, quasi beckettiani, crea nella pièce lo scoglio più duro: il testo pretende di essere conosciuto a fondo, altrimenti si rischia di cadere in fraintendimenti. A volte ci si perde dietro le movenze della donna-coscienza e ai suoi laceranti graffi di gesso sulla lavagna; ci si perde nel soliloquio infinito dell’uomo, nel suo volto gigante proiettato sulla parete nera della scena. L’affollamento di bellezza ed estraneità richiede preparazione, altrimenti di fronte al monologo di Herlitzka si rischia di non cogliere la raffinatezza di un’opera colta e visionaria. [serena giorgi]

Interpreti
Roberto Herlitzka, Marina Sorrenti
Produzione
Mariano Grimaldi collaborazione con A.P.S. Manovalanza
In scena
fino all'8 dicembre Teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi | Roma
Anno
2013
Genere
monologo