Senza destino - Fateless
Sorstalanság
Regia
Lajos Koltain
Sceneggiatura
Imre Kertész
Fotografia
Gyula Padose
Montaggio
Hajnal Sellõ
Musica
Ennio Morricone
Interpreti
Bálint Péntek, Béla Dóra, Marcell Nagy, Áron Dimény
Anno
2005
Durata
133'
Nazione
Ungheria / Germania / Uk
Genere
drammatico
Distribuzione
Medusa Film
Cartoline dall’inferno. Sono quelle che Lajos Voltai direttore della fotografia per Istvan Szabo (Mephisto, premiato con l’Oscar; Il Colonnello Redl) e Giuseppe Tornatore (La leggenda del pianista sull’oceano, Malena) qui al suo debutto dietro la macchina da presa, scatta per illustrarci l’adolescenza di un giovane ebreo ungherese Gyuri Koves deportato insieme ad altri 600.000 connazionali nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. Tratto da romanzo del Premio Nobel per la Letteratura Imre Kertész e sceneggiato dallo stesso autore, Senza destino è un film elegante nella forma – lenti e sontuosi movimenti di macchina, luci ed immagini ricercatissime – e freddo nella sostanza, nel congelamento del tasso emotivo di cui la pellicola è impregnata.
Un film diviso in tre atti, ognuno dei quali caratterizzato da una dominante cromatica precisa e semantica.
Il primo atto si apre a Budapest nella descrizione del passaggio obbligatorio del quattordicenne Gyuri Koves dall’età della fanciullezza e spensieratezza a quella adulta della responsabilità e coscienza. La partenza del padre per il lavoro obbligatorio, l’abbandono della scuola, la consapevolezza del futuro che il destino a lui assegnato, sono messe in scena attraverso i colori seppiati del ricordo e della nostalgia.
Il secondo atto raccontato attraverso una dominante tonale venata di azzurro sono i giorni dell’incertezza, del rastrellamento nelle case e sugli autobus, dei campi di smistamento e dei lunghi viaggi in treno attraverso l’Europa. Sono i giorni della separazione e della paura, i giorni in cui le voci un tempo così lontane e mitologiche di campi di concentramento e forni diventano pian piano sostanza e realtà.
Il terzo e principale atto di questa tragedia umana è raccontato attraverso i colori grigi del cielo e della neve sporcati di cenere. La vita nei campi di concentramento è fatta di piccoli gesti quotidiani, di meschine lotte per la sopravvivenza, di contrattazioni e striscianti vendette. Un luogo in cui il significato di ‘destino’ appare in tutta la sua crudezza. “Sai qual è il destino di noi ebrei? Sopportare con paziente rassegnazione le persecuzioni di cui siamo vittime, per espiare colpe del passato.” Questa è la prima lezione che il giovane Gyuri apprende da un anziano rabbino. Un senso di rassegnazione che è nello stesso tempo il punto di forza psicologico di un giovane uomo e di un popolo intero capaci di sopravvivere silenziosamente al destino assegnatoli, anzi al proprio Senza destino.
Se la Storia è una serie di eventi pianificati e in parte prevedibili – basti pensare che lo Shoah fu ideato ed approvato dal regime nazista nello spazio di un pomeriggio, in un’ora di discussione -, i destini dei singoli uomini sono soggetti sin troppo ai colpi della causalità, talmente imprevedibile da porci in uno stato di perenne impotenza. Ma la rassegnazione è anche il punto di partenza per la sopravvivenza, per la capacità di vedere la felicità anche in un luogo così vicino ai gironi infernali come i campi di concentramento. E la felicità risiedeva per il giovane protagonista del film in un preciso momento della giornata, nell’ora che separava il ritorno dai campi di lavoro con l’adunata serale, quell’ora che coincideva con la cena e con il tramonto del sole che colorava la natura circostante quei monumenti all’umana depravazione.
Un film che nulla toglie e nulla aggiunge all’argomento, nei confronti del quale si deve un obbligo morale di rispetto ma che rimane incapace per la sua confezione sin troppo ricercata e patinata di coinvolgere emotivamente. Ma forse non era nelle intenzioni del suo autore, di mantenere comunque vivo il ricordo per le generazioni future e visto quanto accaduto recentemente in alcuni stadi italiani, ne abbiamo ancora molto bisogno. [fabio melandri]