Lo scafandro e la farfalla
Le Scaphandre et le Papillon
Regia
Julian Schnabel
Sceneggiatura
Ronald Harwood
Fotografia
Janusz Kaminski
Montaggio
Juliette Welfing
Scenografia
Michel Eric, Laurent Ott
Costumi
Olivier Beriot
Musica
Paul Cantelon
Interpreti
Mathieu Almaric, Emmanuelle Seigner, Marie Josée-Croze, Anne Consigny, Patrick Chesnais,
Niels Arestrup, Olatz Lopez Garmendia, Jean-Pierre Cassel, Marina Hands, Max Von Sydow
Produzione
Pathé Renn Productions - Kathleen Kennedy e Jon Kilik, France 3 Cinéma e Banque Populaire Images 7, Kennedy/Marshall Company, C.R.R.A.V. Nord Pas de Calais, Région Nord-Pas-de-Calais, Canal+ e Ciné Cinémas
Anno
2007
Nazione
Francia
Genere
drammatico
Durata
112'
Distribuzione
Bim Distribuzione
Uscita
15-02-2008
Giudizio
Media

Nel dicembre ‘95, all’età di 43 anni, Jean-Dominique Bauby – dinamico e carismatico direttore di ELLE Francia – fu colpito da un ictus devastante che ne rese inattivo il sistema cerebrale e ne cambiò la vita per sempre. Superato un iniziale stato di coma, si svegliò per scoprire di essere vittima di una sindrome locked-in – mentalmente vigile ma prigioniero dentro il suo stesso corpo, in grado di comunicare col mondo esterno solo attraverso il battito della palpebra dell’occhio sinistro.
Costretto a confrontarsi con quest’unica prospettiva di vita, Bauby riuscì a costruire un ricco universo interiore per trovare dentro di sé le uniche due cose che non fossero paralizzate: l’immaginazione e la memoria. All’Hospitale Maritime di Berck-Sur-Mer imparò un alfabeto completamente nuovo, che codifica le lettere più frequenti del vocabolario francese. Queste parole, queste frasi, questi capitoli dolorosamente espressi lettera per lettera, raccontano la storia di una profonda avventura all’interno della psiche umana e della battaglia tra la vita e la morte.
Questo alfabeto riuscì a scardinare la prigione del corpo di Jean-Dominique, che lui chiamava il suo scafandro, ed aprì gli sconfinati territori della libertà interiore, da lui chiamati la farfalla.
Premio per la miglior regia al Festival di cannes, Golden Globe per il Miglior Film Straniero, Golden Globe per la Miglior Regia e candidato a 4 premi Oscar (miglior regia, fotografia, montaggio e sceneggiatura non originale).


Note di produzione

Il film inizia come il libro. Una luce bianca, accecante, una danza di colori un po’ sfuocati. Appaiono facce di sconosciuti, che ci parlano, che gli parlano. Jean-Dominique Bauby capisce di essere in ospedale, attaccato a delle macchine che lo aiutano a respirare. Un uomo vestito da dottore viene verso di lui. Gli fa un franco aggiornamento sulla situazione. Bauby ha avuto un ictus ed è stato in coma per diversi mesi. Prova a parlare ma nessuno sembra sentirlo. Il dottore gli spiega che soffre di una condizione estremamente rara. Il paziente è interamente paralizzato, come se fosse chiuso dentro se stesso, tutto il suo corpo intrappolato da una specie di scafandro. Nel caso di Bauby, l’unica cosa che funziona è la sua palpebra sinistra. E’ la sua ultima finestra sul mondo e il suo unico metodo di comunicazione. Un battito di ciglia per dire sì, due per dire no. Il cervello, da parte sua, funziona alla perfezione. Bauby può sentire, capire, ricordare, ma non può più parlare. Oltre la palpebra sinistra, ci sono altre due cose che funzionano ancora – l’immaginazione e la memoria. La farfalla. Da questo punto di vista decide di raccontare la sua storia. Non come un’intervista, ma come un libro. Impara a memoria le frasi della sua storia e poi, utilizzando il metodo sviluppato dalla sua logopedista, le detta quello che vuole dire lettera per lettera, sbattendo le ciglia quando viene pronunciata la lettera corretta.

Un anno e due mesi nella stanza 119 dell’Ospedale Marittimo di Berck e il suo libro è finito. E’ morto dieci giorni dopo la pubblicazione. Lo scafandro e la farfalla è stato pubblicato dalle Edizioni Robert Laffont nel 1997 ed è stato un grande successo. E’ stato tradotto in molte lingue e i lettori si sono universalmente commossi davanti a una storia che sarebbe potuta succedere a ognuno di noi. Jean-Dominique Bauby, il direttore di un’importante rivista di moda, Elle, era stato un grande seduttore. Aveva avuto diverse vite e aveva avuto successo in tutte. Aveva avuto cura della sua salute e del suo aspetto. L’ictus era stato improvviso e ingiusto come il destino stesso. E lui lo vide, effettivamente, come un segno del destino. Aveva vissuto la sua vita di giornalista con passione frenetica e non si era mai reso conto di cosa fosse veramente importante. I suoi bambini.
Non può scrollarsi di dosso questo senso di colpa. Quasi un anno prima, era andato via di casa, aveva lasciato i suoi figli e sua moglie e non aveva ancora avuto il tempo di cominciare una nuova vita. E si è fermata improvvisamente il 9 dicembre 1995. Prima dell’ictus aveva firmato un contratto con le Edizioni Robert Laffont, per scrivere un moderno adattamento, la versione al femminile de Il conte di Montecristo. Un sacrilegio simile poteva spiegare la sua terribile punizione. “Un capolavoro non si tocca”. Jean-Dominique si vede come Noirtier de Villefort, un personaggio misterioso, depositario di gravi segreti, condannato al silenzio e intrappolato su una sedia a rotelle, che può comunicare solo con gli occhi. Il libro di Bauby è un vero atto letterario. Il potere della sua storia lo ha reso uno scrittore. Un destino tragico l’ha trasformato in un artista.
La storia di Jean-Dominique Bauby assomiglia alla vita di un artista che vive una battaglia fra se stesso e gli altri. La malattia, come la malattia mentale o il genio, è fonte di esclusione e fraintendimento. Per sfuggire al suo destino, per sfuggire alla crudeltà umana, si può solo contare su se stessi. Sull’intelligenza, sulla creatività e sull’eroismo. Attraverso la sua scrittura, Jean-Dominique Bauby prolunga la sua vita al di fuori di lui, al di fuori del suo corpo. Il potere del sogno e del pensiero gli consentono di attraversare ogni confine. Aveva fatto promettere a sua moglie che avrebbe fatto adattare il libro per il film, come raggiungimento di questa trascendenza. Ma la singolarità e l’autenticità de Lo scafandro e la farfalla preclude un adattamento classico, diretto. Portare sullo schermo un romanzo così commovente richiede un forte senso estetico e un’attenta costruzione del film nel tentativo di reinventarlo e adattarlo ai bisogni di questa storia in cui il protagonista non parla mai. Quando Kathleen Kennedy, associata alla Dreamworks, ha comprato i diritti del libro, si è concentrata proprio su questo aspetto. Ha scritturato Ronald Harwood (sceneggiatore degli ultimi due film di Roman Polanski, Il Pianista e Oliver Twist) per la sceneggiatura. Mantenendo la struttura di fondo del libro, Harwood ha cercato di posizionare la storia fra movimento e immobilità. Kathleen Kennedy poi ha avuto l’idea di chiedere a Julian Schnabel di dirigere il film – solo lui avrebbe potuto filmare il viaggio interiore di Bauby.
Schnabel aveva scoperto il libro in un modo molto personale, attraverso un amico che adesso non c’è più. Era molto interessato alla tecnica di narrazione fuori campo del film – il pubblico è l’unico confidente del protagonista. Nessuno nel film sa cosa stia succedendo nella sua testa – lo sa solo il lettore o lo spettatore. All’inizio il progetto era dell’Universal, poi è passato alla Pathé, che lo ha prodotto con Jon Kilik, il produttore di tutti i film di Julian Schnabel. Schnabel ha deciso di girare il film in francese – secondo lui non c’era altro modo. Ha scelto attori francesi – a partire da Mathieu Amalric, che aveva notato nel 1999 a San Sebastian nel film Fin août début septembre. Quando aveva lavorato con lui in Munich di Steven Spielberg, Kathleen Kennedy aveva subito pensato che sarebbe stato perfetto per quella parte. Julian Schnabel le aveva già parlato di lui.

Il resto del cast corrisponde a delle scelte precise. Ogni ruolo, senza eccezioni, è interpretato da attori conosciuti – Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Anne Consigny, Patrick Chesnais, Niels Arestrup, Olatz Lopez Garmendia, Jean-PIerre Cassel, Marina Hands, Emma de Caunes, Isaach de Bankolé e Max Von Sydow sono gli attori principali. Il direttore della fotografia è Janusz Kaminski, che ha lavorato in molti film di Spielberg.
Julian Schnabel ha deciso di fare questo film non solo perché il tema si adatta molto al suo tipo di cinema, ma anche perché era molto coinvolto a livello personale. L’ha molto colpito il rapporto fra Jean-Dominique Bauby e suo padre e le scene con i due personaggi sono molto commoventi. La sfida iniziale è proprio il cuore del progetto. La prima metà è girata dal punto di vista di Jean-Dominique Bauby. Le immagini a volte sono fuori fuoco, a volte brillanti e piene di colore, altre volte accecanti. Julian Schnabel gira come dipinge, attaccato alla pelle, alla pellicola. L’erotismo nelle inquadrature di bocche, cosce, colli, fa pensare a un dettaglio di un quadro. I set, per tutte le loro stranezze e i loro lussi, sono magici. Bauby aveva soprannominato un determinato punto dell’Ospedale Marittimo di Berck “Cinecittà”. Gli piaceva molto il fascino di quel luogo, l’immaginario geografico di uno studio cinematografico. Con una vera presa di posizione, il monologo interiore di Jean-Dominique viene raccontato da una voce fuori campo. Viviamo l’esperienza insieme a lui, nello stesso tempo e nello stesso luogo.
La musica accompagna i momenti di disperazione e i momenti di rinascita. Julian Schnabel pensa che la vita di Jean-Dominique Bauby cominci dopo l’ictus, quando si rende conto di chi è veramente. E’ nato di nuovo, sotto forma di farfalla.

La prima parte è in prima persona. Attraverso l’alfabeto e il battito delle ciglia, Jean – Dominique riesce a comunicare con coloro che gli stanno intorno. La sua parola è una sorta di scrittura. “La mia prima parola è IO. Comincio con me stesso.” Usando questa tecnica riesce a uscire da se stesso, da scappare dal suo scafandro, tornare in superficie. La seconda parte è girata dall’esterno – la macchina da presa filma Bauby che vive la sua nuova vita e mostra che attraverso il suo lavoro di scrittore ha ritrovato la dignità e la vita. L’interpretazione di Mathieu Amalric è unica – a metà fra la padronanza di un corpo deforme e l’espressione orale dell’emozione. La tragedia non preclude l’umorismo. Questo film è una lezione di vita, non in senso moralistico, ma dell’energia che ne deriva. Ogni istante di questo film ci può insegnare qualcosa.

Note di regia: Julian Schnabel

“Sono stato cieco e sordo o ci è voluta l’amara luce di un dramma per trovare la mia vera natura?” chiede Jean-Dominique Bauby, rivolgendosi a se stesso e a tutti noi. Ci vuole la sindrome locked-in per rendere cosciente un essere umano e per creare empatia con gli altri? Ci dobbiamo ammalare perché gli angeli vengano a salvarci?

Mio padre è morto a 92 anni e non è era mai stato realmente malato in tutta la sua vita. E’ stato felicemente sposato con mia madre per più di sessant’anni. La maggior parte delle persone metterebbero la firma per avere la vita che ha avuto lui ma, non essendo mai stato malato, era impreparato e terrorizzato dalla morte. Alla fine della sua vita ha vissuto con me e mia moglie, ma non sono riuscito a risparmiargli questa paura. La vita non può essere solo dolore, caos sessuale e nulla. Ci deve essere qualcos’altro.

Quando Jean-Dominique Bauby era in piena salute, atletico e intelligente, era un autore qualificato. Era uno scrittore che si conformava al successo. Attraverso la sua paralisi e la sua rinascita in veste di occhio – il punto di vista di quello che lui chiama la farfalla – indaga sulla sua vita e sui paradossi della vita in generale, portando a termine un lavoro che ha un profondo effetto su chiunque lo abbia letto.