Last Days
id.
Regia
Gus Van Sant
Sceneggiatura
Gus Van Sant
Fotografia
Harris Savides
Montaggio
Gus Van Sant
Musica
Thurston Moore
Interpreti

Michael Pitt, Lukas Haas, Asia Argento, Scott Green, Nicole Vicius

Anno
2005
Durata
85'
Nazione
USA
Genere
drammatico
Distribuzione
Bim
“Nirvana è la libertà dal dolore” commentò svariati anni fa Kurt Cobain, compianto leader del gruppo di Seattle, che secondo la stampa socio-musicale, dette il via a quel “movimento culturale” che venne poi conosciuto sotto l’esasperato termine grunge. Il suo dolore invece ebbe fine in una sera di aprile del 1994 non riuscendo a reggere il peso di una responsabilità troppo grande. Ma una generazione “stropicciata”, nei vestiti e nei pensieri, mise nella musica rock e nei testi di alcune band del tempo (gli anni a cavallo tra ’80 e ‘90) la fiducia di un futuro migliore, affidandosi alla rabbia e al rumore per coprire il suono del disagio. Oltre ai Nirvana, Alice in Chains, Soundgarden, Pearl Jam, Mudhoney, Tad ed altri furono
gli esponenti di uno stile di vita, un modo di pensare, di essere. Seattle divenne la capitale del disagio che si propagò per mezzo mondo, facendo proseliti e scuotendo gli ambienti patinati di fine decennio. La musica fu la derivazione naturale, come la fiamma dopo la scintilla. La musica come veicolo universale di un messaggio di fratellanza e comprensione. Sono passati molti anni da allora e il vuoto di una generazione non ha tuttora trovato un adeguato riempimento.
“Three days was the morning…” recita il primo verso di una flebile
canzone dei Jane’s Addiction. Le ultime 72 ore di Kurt Cobain sono
un giro d’orologio senza lancette. Al mattino niente risveglio. Gus Van Sant prova ad immaginare, anche grazie alle testimonianze e agli eventi di cronaca, come il leader dei Nirvana abbia potuto trascorre le sue ultime ore prima dell’epocale suicidio in solitudine nel box degli attrezzi della fatiscente villa.
I 97 minuti di pellicola però non rendono giustizia al genio creativo quale fu Cobain e alla sua musica. Last Days delude proprio dove invece potrebbe gridare e splendere. Durante tutto il film, di Cobain si ha la parvenza di un tossicomane senza nervi, di uno postato mentale in preda alle paranoie che fugge da tutto e tutti, in

s direzione del bosco, che nasconde e protegge. Blake è una marionetta rotta dalle giunture logore e i tendini troppo sciolti per prendere le redini di un destino qua solo ricordato.
L’intento sommesso e intimista di Gus Van Sant è senza dubbio coerente con il suo fare cinema e senz’altro da apprezzare, a discapito di una scelta pop da music star, ma cade senz’altro lontano dal vero significato. Il film risulta essere noioso e di una lentezza impressionante, stanco e moribondo come il suo personaggio che vaga nell’oscurità tra le ombre del giardino. I momenti più affascinanti sono da ricordare nelle sessioni sonore, quando lo

pseudo Cobain suona chitarre, batteria, percussioni e canta mettendo tutto in loop e creando un vortice dissonante di indubbio tormento emotivo; quando si siede in sala prove dietro la batteria e arpeggia un mesto e sporco giro di chitarra acustica che prende vita e si riempie di magia. Michael Pitt recita una parte difficile seppur dalle battute contate, ma sembra trovarsi a suo agio e ha successo nel rievocare lo spettro filmico del singer dei Nirvana.
Van Sant non riesce a dare profondità ad un soggetto sulla carta pieno di motivazioni, chiudendo il tutto in uno scarabocchio autoreferenziale (alcune riprese ricordano molto Elephant) che ha poco a che fare con la figura di cui si prova a ricordare. Il film prende spunto infatti dalla vita di Cobain, ma non vuole essere un biopic. La poesia, che a tratti il film rilascia, salva la pellicola da un giudizio molto più pesante nonostante il tutto sembri quasi più un documentario e una pratica di montaggio che un film.
Curiosa e angosciante è la scelta dei brani di Thurston Moore (chitarrista dei Sonic Youth), con Venus in Furs dei Velvet Underground in testa, ed anche Kim Gordon, leader dei Sonic Youth, recita un cammeo all’interno della pellicola.
“It’s better to burn out than to fade away” scrive Neil Young in Hey hey My my e Cobain ha preso alla lettera l’inciso. Meglio bruciare subito che spegnersi lentamente. Van Sant commette invece l’errore di spegnersi lentamente, con questo suo film che strascica e che incede silenzioso verso una selva sconosciuta proprio come il suo personaggio in alcune scene. Un fantasma che vaga senza corpo. Rimanere evanescenti e delusi è molto facile, ma è bene non scoraggiarsi. Tutto era nato per le orecchie e non per gli occhi. I Nirvana, Kurt Cobain, il Seattle sound, il grunge, restano. Incisi su qualche traccia di un polveroso disco o sul nastro di qualche vecchia cassetta, che continuiamo ad amare e ad ascoltare con parsimonia. Perché il passato apre voragini sulle quali è bene non sporgersi. [alessandro antonelli]