Il vento che accarezza l'erba
The Wind That Shakes the Barley
Regia
Ken Loach
Sceneggiatura
Paul Laverty
Fotografia
Barry Ackroyd
Montaggio
Jonathan Morris
Scenografia
Fergus Clegg
Costumi
Eimer Ni Mhaoldomhnaigh
Musica
George Fenton
Produzione
Rebecca O'Brien
Interpreti
Cillian Murphy, Padraic Delaney, Liam Cunningham, Gerard Kearney,
William Ruane, Orla Fitzgerald, Mary O'Riordan, Mary Murphy
Anno
2006
Genere
drammatico
Nazione
UK, Francia, Irlanda
Durata
124'
Distribuzione
Bim Distribuzione
Uscita
10-11-06

Il vento che accarezza l’erba è un film che parla degli irlandesi adottando il punto di vista degli irlandesi stessi. E’ un film, dunque, sullo Sinn Fein: ovvero sul partito che lottava per la Repubblica d’Irlanda, per l’affrancarsi dalla corona di Sua Maestà, ma anche, così come letteralmente si traducono i termini gaelici, su ‘noi stessi’, su quella eterna lotta contro l’oppressore che caratterizza, marxianamente, per Loach tutta l’umanità fotografabile e, dunque, tutta la sua cinematografia.
Scordatevi carezze sull’erba, però. Nell’originale, il titolo vuole che il vento non accarezzi i verdi prati dell’isola, ma che ne ‘scuota il frumento’. ‘The wind that shake the barley’ è infatti la vera e propria onomatopea, il paradigma stesso del lavoro di Loach.
Un vento che smuove la quotidianità tranquilla e placida delle campagne irlandesi, una risposta, ora e subito, alle angherie dell’esercito inglese sulla semplice popolazione civile.
Se Neil Jordan partiva da una locandina da presa della Bastiglia nel trattare il personaggio di spicco di quell’epopea nel suo Michael Collins datato 1996, Loach parte da un villaggio qualsiasi, dove si muove un gruppetto qualunque di giovani patrioti.
La scena iniziale è da antologia. Loach riesce a inquadrare, in una sola, elementare, sequenza, tutto quel che intende raccontare, la cifra etica ed estetica del film. E dunque la violenza dell’invasore, la rassegnazione e l’orgoglio dell’invaso, il dramma, l’appartenenza, la voglia di riscatto e il tormento interno di Damien, giovane protagonista, emergono da subito con forza e lucidità.
Peccato, un vero peccato che qui il film finisca, muoia, si adagi per una buona metà sullo slancio iniziale, perdendo del tutto la bussola nella coda, la cui retorica del patetismo, del ‘perché mi hai costretto ad ucciderti’, dilaga, alimentata dal sottotesto tipicamente ‘alla Loach’ della resistenza ‘senza se e senza ma’ contrapposta alla logica del compromesso.
La dinamica dell’indipendentismo, della rivoluzione che scorre sottotraccia nelle vene del popolo, si accompagna a quella che ruota intorno a due fratelli Damien (Cillian Murphy) e Teddy (Padraic Delaney), dualismo che si rispecchia nella struttura del film: una prima parte in comunione d’intenti, di identica lotta e di sentite passioni, e una seconda in cui Teddy sceglierà il compromesso di un’indipendenza sotto la potestà della corona, mentre Damien continuerà nella lotta repubblicana.
Mentre nella prima metà il film si adagia sulla virulenza delle prime battute, aprendo a una fase di sequenze descrittive della guerriglia armata, degli attentati e delle devastazioni, che risultano sorrette da quello slancio iniziale che bastava, da solo, a giustificare un certo, prevedibile, andamento, magari, come nel caso del film, ben fotografando splendide locations, la seconda parte cede di schianto alla retorica classista, tipica di Loach.
Il punto di frattura non è, come nel resto degli snodi narrativi, inserito in un climax narrativo. Bensì si dipana in una verbosa scena di dibattito politico, per nulla sentita e difficilmente comprensibile nelle sue sfumature. La rottura è quindi, a livello di senso, netta. E Loach lavora drasticamente d’ellisse, “sintetizzando” un’evoluzione degli eventi che è ingiustificatamente accelerata e che fa perdere il quid dell’azione, il fulcro che muove i personaggi.
Ci ritroviamo così un Damien improvvisamente su posizioni social-rivoluzionarie – “espropriamo la terra dei ricchi londinesi”, recita un suo volantino – un Teddy repentinamente asservito ad un potere che, almeno in parte, avversava fino a poco prima. Ma soprattutto davanti ad un finale (e chi non vuole perdersene il gusto salti alla fine del capoverso) poco comprensibile, nonché del tutto prevedibile. La morte di un fratello causata dall’altro, quasi non importa quale nella dinamica degli eventi, se nonché a spegnersi, fisicamente ma non moralmente, è, alla maniera di Loach, il più debole, quello che alle spalle non ha l’istituzione, ma che al contrario l’avversa.
Un film che subisce troppo, ironia della sorte, la mano pesante, i (calcati) tratti caratteristici del suo autore, finendo, dopo un ottimo avvio e una navigazione a vista, per venirne soffocato.
[pietro salvatori]