Il diamante bianco
White Diamond
Regia
Werner Herzog
Sceneggiatura
Werner Herzog
Fotografia
Henning Brümmer,
Klaus Scheurich
Montaggio
Joe Bini
Musica
Ernst Reijsiger, Eric Spitzer
Interpreti
Werner Herzog, Graham Dorrington
Anno
2004
Durata
90'
Nazione
UK - Germania
Genere
documentario
Distribuzione
Fandango
Un enorme dirigibile bianco a forma di pesce si insinua con la fascinosa e titubante lentezza dell’esploratore attraverso la foresta pluviale della Guyana. Protagonisti assoluti dell’impresa un ingegnere aeronautico inglese, Graham Dorrington, che come un novello Leonardo è ansioso di varcare i limiti dell’umana conoscenza e l’infaticabile Werner Herzog che, con la sua cinepresa, a quel tipo di appuntamenti con la storia non è mai arrivato in ritardo.
Ancora una volta, il cinema del maestro tedesco si fonde con la monumentalità dell’impresa, in un film-documentario dove anziché privilegiare la storia, si enfatizza la sublimità del momento epico, con i suoi disastrosi fallimenti e la sua gloriosa ascesa. White Diamond rappresenta il sogno avventuroso di un Fiztcarraldo che non ha bisogno di essere interpretato dalla magniloquenza di un Kinskj, perché è già reale, o perlomeno reali sono i tentativi di porlo in essere. Herzog, ci rivela una realtà (quella degli amerindi e del loro sacro habitat) con gli occhi ingenui e votati alla purezza di un Kasper Hauser o di un “buon selvaggio”. L’approccio alla conoscenza è primitivo, vergine come l’ambiente che descrive e curiosamente disinteressato, coinvolge tutto: dagli alberi alti sessanta metri che oscurano il cielo con le loro fronde, alle iguane impettite che paiono sfidare il sole, al volo circolare dei rondoni attorno alle spumeggianti pareti di una cascata. Alla contemplazione mistica della natura, che Herzog recupera da quella Kultur germanica dell’Ottocento che guardava al Wald (selvaggio, incontaminato) piuttosto che al razionalismo laico di stampo illuminista diffusosi dalla Francia pressochè a tutta l’Europa, si unisce l’interesse per la vita indigena. Quando l’indigeno Yeap, che non mai volato in vita sua, viene invitato a bordo del dirigibile da Dorrington in segno di amicizia, l’immobilismo temporale delle credenze millenarie si congiunge con la febbrile ansia dell’uomo civilizzato di spingersi oltre e di dominare ciò che prima era ignoto, regalando allo spettatore un momento di romanticismo e di estasi ineguagliabile. Un opera di “interminati spazi e sovrumani silenzi” che possiede la fresca e poetica intimità di una nuova alba (cinematografica?) così meravigliosamente svelata da una poesia di Sandro Penna: “Come è forte il rumore dell’alba! Fatto di cose più che di persone. Lo precede talvolta un fischio breve, una voce che lieta sfida il giorno. Ma poi nella città tutto è sommerso. E la mia stella è quella stella scialba, mia lenta morte senza disperazione.
[matteo burioni]