Donnie Darko
id.
Regia
Richard Kelly
Sceneggiatura
Richard Kelly
Fotografia
Steven B. Poster
Montaggio
Sam Bauer, Eric Strand
Musica
Michael Andrews
Interpreti
Jake Gyllenhaal, Mary McDonnell, Patrick Swayze, Drew Barrymore
Anno
2001
Durata
103'
Nazione
USA
Genere
horror
Distribuzione
Moviemax

Donnie Darko esce nel 2001. Senza pretese. All’epoca è un evanescente fuoco fatuo, nonostante sia considerato dai giovani critici un capolavoro del cinema indipendente americano. Forse con troppa superficialità viene snobbato e gettato nel dimenticatoio. Frank, allora, è solo un nome come tanti. Ma la meteora lascia la scia. Molti la seguono. Una schiera sotterranea di cultori e appassionati ne parla, si scambia pareri, rivede il film, attacca in camera foto e posters. Le voci si rincorrono. Adesso Frank è il nome di un demoniaco coniglio gigante. Caduta precocemente e con troppa poca considerazione sul cinema moderno questa piccola stella torna a bruciare tre anni più tardi con un effetto di ritorno devastante. In terra si apre un cratere. Il primo film del ventinovenne Richard Kelly è un lavoro mistico, psicotico e delirante ma calibrato e dosato con parsimonia. La follia e il malessere dei personaggi è una cassa di risonanza grave e tutto il film suona di una dolce armonia di fondo. Una malinconia ora lontana, ora vicinissima. Ambientato nell’anno 1988, la storia narra di Donnie, un ragazzo strano ma intelligente, ossessionato dalle visioni e dalle domande sul mondo che gli gira intorno. Un ambiguo predicatore del non-vizio (Patrick Swayze) è poi l’ammaliatore verbale di una società che si lascia anestetizzare dai finti santoni e dalla tv di costume. La caduta del motore di un Boeing sul tetto della camera del protagonista e le inquietanti apparizioni notturne di uno sproporzionato coniglio malefico saranno le luci nel buio di questa fantascientifica storia, venendo a sconvolgere un angolo della fastosa Los Angeles. Il mondo ha circa 28 giorni, 16 ore e qualche minuto di vita. Questa è la profezia. Poi sarà la fine. La trama è intricata e sempre più incomprensibile man mano che passano i secondi. Le scene si accavallano freneticamente e a i ritmi blandi di narrazione si intervallano chiavi di lettura svariate. Il senso di tutto si sparpaglia, deraglia e torna in fila. Si perde e si ritrova. E’ tutto un presagio o è solamente la realta vista da angolazioni diverse? E’ l’avvento di un’attesa apocalisse o un’evanescente porta di confine spazio-temporale su altre dimensioni? Chi può saperlo. Il gioco è lì. Tra le pieghe cerebrali. Pensare troppo sarebbe inutile e dispendioso. Forse non c’è una logica. C’è solo una domanda, una possibilità da cogliere o da intravedere. Le quasi due ore di pellicola sono piene di ombre e sortilegi, fresche e piacevoli alla vista come un quadro di Tiziano. Jake Gyllenhaal (L’alba del giorno dopo) è all’altezza di un personaggio difficile dalle molteplici sfumature e i costanti stati d'animo. Il cammeo di Drew Barrymore è quasi rappresentativo (Produttore esecutivo) anche se non stona nella parte della professoressa alternativa e anticonformista. Il film è alquanto lento, ma recupera spesso la pista con accelerazioni e scatti improvvisi, con tagli di ripresa particolari e sempre vari. Si traveste da videoclip e corre insieme alla musica, altra splendida e oscura presenza. “Head over heels” dei Tears for Fears e la solenne “Notorius” dei Duran Duran sono un omaggio nostalgico agli anni ottanta mentre “Love will tear us apart” dei Joy Division è un amore spassionato e viscerale per il dark e l’oscurità. Il lungometraggio è un cammino esoterico, dalle atomsfere metasensoriali e dagli sguardi mefistofelici. La splendida “Mad world” di Gary Jules (ma nota al grande pubblico ancora una volta per i Tears for Fears) è la giusta cantilena verso la fine. Del mondo. L’immediato rimando a David Lynch è più che legittimo, rimembrando anche il cervellotico Mulholland Drive, anche se lo stesso Kelly ammette stima e devozione verso registi quali Peter Weir e il suo Fearless o a scrittori quali Stephen King (scorgiamo “IT” in mano alla madre di Donnie ad inizio film). Ho rivisto molte tracce del recente Le regole dell’attrazione di Roger Avary, i due lavori si guardano un po’ allo specchio, anche se sorretti da temi e percorsi diversi e su livelli cronologici non assimilabili. Il modo di raccontare è simile. Il non luogo è per entrambi la fine. Forse perché una nuova generazione di registi americani, e non, si sta prepotentemente mettendo in mostra e con pieno merito, raccontando il disagio di una società con molti difetti, piena di contraddizioni, dove i giovani demotivati e disillusi fanno uso di violenza, tv e droga optando per surrogati di sogni e tragitti solo pensati, forse per paura di un confronto o per l’impossibilità a farlo. La delusione è un martirio che affannosamente si scrolla di dosso e la consapevolezza usa spesso le vene e gli ormoni come proiettili per vendette contro colpevoli invisibili. Contro se stessi e il nulla. Mi piace pensare che ci siano modi anche insoliti o alternativi per mostrare il disagio o l’infelicità seppur traumatici o di rottura. La fine degli anni ottanta trovò nel grunge l’espressione di un malessere comune, l’insofferenza alla vita di milioni di ragazzi finalmente uniti dagli stessi motivi e da ideali senza guinzaglio. Probabilmente un’era simile è alle porte. Si sente nell’aria come un vento caldo. Molti giovani artisti stanno già virando verso questa direzione con coraggio e responsabilità. Credo che Donnie Darko sia un film molto poetico dopotutto, che nasconda ermeticamente strofe di disarmonia con i nostri simili e con gli oggetti. Che rilasci un sapore amaro subito dopo lo zucchero e gli infusi di chissà quali veggenti. “La poesia è qualcosa che cammina per le strade” diceva Federico Garcia Lorca. Forse camminiamo poco o stiamo troppo in casa. Basterebbe aprire la finestra e guardare fuori. Con un po’ d’attenzione troveremmo cose inaspettate. Sperando che nessun motore di aereo ci cada addosso. Troppo scontato. Sarebbe una fine già vista. [alessandro antonelli]

Donnie Darko (un adolescente con il nome di un fumetto) vive questa fase della sua vita nel modo più tormentato possibile, infattiè schizzofrenico. La sua mente gli fa vivere un'esistenza cupa e lo porta anche a compiere azioni scellerate. Ispiratore delle sue follie è un coniglio nero, che ogni tanto appare e che fa sentire la sua voce. Al contrario del bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie, che conduce la ragazzina in un mondo di favola, qui il neroconiglio è la personificazione della follia e del desiderio di violenza che giace in ognuno ma che (fortunatamente) viene repressa. Ma che nel momento in cui viene liberata, rende folli. Ci sarebbero tante cose da dire, ma di più non dico. Ho visto che ancora nessuno ne ha parlato e aspetto che qualcuno l'abbia visto per poterne parlare più approfonditamente. Io comunque lo consiglio, perchè anche se non sarà uno dei 100 film più belli come dicono nella pubblicità, è sicuramente bello, con delle ottime trovate e dello stile registico niente male... [sara lucarini]

È un film che ti lascia spiazzato, senza dubbio. Che genera dubbi, interpretazioni, perplessità. In parte nell'accezione positiva dei termini; nel senso che si riscontra una notevole capacità nel descrivere una vita disgregata, vittima di allucinazioni, umori neri, e tuttavia così lucida da capire che forse la vera follia è più nel mondo che vede che dentro la sua testa. Il pastiche fra generi è anch'esso molto efficace per gran parte della pellicola, rafforzando il doppio senso di alienazione che pervade il film, quello del personaggio e quello della comunità in piena crisi mistico-newage. In un mondo in cui tutto sembra ridursi ad una assurda dicotomia (Dukakis – Bush sr.; Paura – Amore, come predica l'assurda insegnante della scuola; Buoni e Cattivi, dove i "cattivi" devono necessariamente essere ricondotti sulla retta via; ecc.), Donnie è semplicemente "strano", perché non è né buono né cattivo, e paura e amore albergano in lui in egual misura, insomma pensa che le cose non siano poi così semplici come viene propagandato. Ma alla fine risulterà il più umano (strano, per uno schizofrenico paranoide), perché l'unico in grado di scegliere davvero, per un moto del cuore e non per una arbitraria presa di posizione tra indiani e cow boys (è in realtà una della diecimila interpretazioni generate dall'epilogo!). Quello che non mi ha convinto del tutto è la sensazione che ad una certo punto la storia sia sfuggita di mano all'autore, e che ci sia troppa carne al fuoco. Va bene spiazzare lo spettatore, il rischio è però finire vittima del proprio gioco (e in qualche punto mi sembra che succeda)! [matteo lenzi]