Il sogno americano di Niels Mueller

[fabio melandri]

Niels Mueller [regista di The Assassination]


Bisogna essere pazzi per credere al sogno americano o è il sogno americano che fa impazzire la gente?
Sicuramente il sogno americano è vivo e vegeto. Io stesso potrei esserne espressione, visto che sono figlio di immigrati tedeschi arrivati dalla Germania, che hanno aperto un negozio di mobili mentre io sono qui ora a dirigere il mio primo film.
Ma questo film guarda un po’ l’altro lato della medaglia del sogno americano; racconta cosa succede a coloro che sono esclusi da questo sogno, a coloro che non ce la fanno in una società condizionata ed ossessionata dal concetto di
vittoria. Cosa succede a chi non vince? In America il concetto di American Dream è strettamente legato a quello di self-made man, cioè chi si fa da solo, chi riesce ad arrivare ad essere il padrone della propria attività. Ma non tutti ci riescono ed allora cosa succede proprio a questi ultimi?


Un aspetto interessante è come lei riunisca i cinegiornali su tutti gli attentati o tentativi di attentato nei confronti della Casa Bianca. E’ una pazzia collettiva? Che rapporto esiste tra realtà e finzione in questo film?
Ero fortemente interessato a fare un film che fosse ambientato in quel decennio della storia americana (1963-1974), definito da molti il decennio dei grandi shock, in cui ci furono diversi assassini e culminati con lo scandalo del Watergate. Per molti è il decennio in cui gli Stati Uniti, la società americana ha perso la propria innocenza. Non so se è realmente così, ma ero comunque interessato a questo periodo che è stato molto tumultuoso, molto turbolento per il nostro paese. Riguardo l’attinenza tra ciò che successe allora e ciò che stà succedendo ora, stiamo vivendo un ritorno all'indietro, come se gli Stati Uniti per la storia dei cicli stia tornando a rivivere quello che è stato vissuto in passato. Non è forse neanche un caso che molte persone paragonano l’amministrazione Bush a quella di Nixon. Nella preparazione al film ho letto molti discorsi del Presidente Nixon, ove emergeva ossessivamente il concetto di vittoria, di guida e predominio per il mondo invece che di cooperazione con gli altri.
Il film è stato scritto durante l’amministrazione Clinton e prima dei tragici fatti dell’11 settembre. Dopo mi sono chiesto se valeva la pena fare un film che tratta del tentativo di dirottamento di un aereo che si deve schiantare contro la Casa Bianca. Il fatto che questo fosse un fatto realmente accaduto mi ha convinto di si. Naturalmente ho avuto grossi problemi a trovare i finanziamenti, in quanto opere che si sposano con la realtà hanno poi problemi a trovare finanziatori.

Tra i produttori ci sono nomi molto famosi e conosciuti (Cuaròn, Di Caprio, Payne). Come è andata?
I due principali produttori del film sono Alfonso Cuaròn e Jorge Vergara. Cuaròn all’epoca in cui giravo, si trovava a Londra sul set di Harry Potter. Ciò nonostante ha avuto il tempo di darmi molti consigli tant’è che un giorno con pronta una copia lavoro, l’ho raggiunto a Londra e sulla stessa moviola di Harry Potter abbiamo visto il film e lavorato tra birra e tequila, dandomi numerosi utili consigli per il montaggio finale. Jorge Vergara è invece un grande produttore conosciuto nel mondo anche per la sua passione per il calcio (è proprietario della più importante squadra messicana). Per Leonardo Di Caprio, tempo fa avevo diretto Tobey Maguire e tramite lui ho saputo che Di Caprio tramite la sua società voleva produrre opere del budget del mio film e visto che i due produttori principali ad un certo punto non erano certi di poter coprire tutte le spese, Di Caprio ha detto io metto una parte, quello di cui avete bisogno potete attingere. Alexander Payne invece è un mio vecchio amico dai tempi della scuola di cinema, a cui è piaciuta la sceneggiatura.

Come è stato lavorare con Sean Penn?
Sean lesse il copione per la prima volta nel 1999, dando la sua approvazione al progetto. Le riprese sono poi iniziate nel 2003. In questi anni abbiamo avuto modo di incontrarci più volte, ci siamo conosciuti meglio ed insieme abbiamo costruito il personaggio.

Quali sono le fonti a cui avete attinto per questo film?
Innanzitutto si tratta di una storia assai poco conosciuta negli Stati Uniti e di conseguenza nel resto del mondo. Questo da una parte è stato un vantaggio perché mi ha permesso di muovermi con una certa libertà creativa. La fonte principale è stato un file dell’FBI, che abbiamo potuto consultare grazie al Freedom Information Act, che conteneva le registrazioni, le cassette che il vero Bicke aveva inviato a varie celebrità, fra i quali il maestro Leonard Bernstein. Nel film abbiamo semplificato facendo vedere che le mandava solo a lui. Grazie a queste registrazioni siamo riusciti insieme al mio sceneggiatore – Kevin Kennedy - a penetrare nello spirito del personaggio e forse capire le motivazioni dietro questo suo atto drammatico. Ci siamo poi ispirati a giornali e riviste dell’epoca. La sceneggiatura ed il film sono stati visionati da due familiari del vero Bicke – vi erano anche rischi di protezione della privacy - che hanno dato il loro assenso.

Come ha reagito il pubblico e la critica americana al suo film?
Sapevo di scatenare grosse reazioni. Il pubblico si è diviso di fronte al film. C’è chi lo ha odiato e chi amato molto, non ci sono state mezze misure. Diverse persone che non hanno amato il film, mi hanno detto che causava loro depressione. Perché raccontare la storia di un perdente, che motivo c’è - mi dicevano. Io ho percepito in queste persone una sorta di auto-identificazione nel personaggio ed un rifiuto a vedere cose nelle quali magari si riconoscevano. Anche chi lo ha amato si è identificato nel personaggio, pur non arrivando alle sue tragiche conseguenze, ma i fallimenti, le frustrazioni, gli insuccessi del personaggio erano anche i loro. La critica invece ha generalmente sostenuto ed apprezzato il film e questo mi ha fatto molto piacere.