anno 1
numero 3
novembre 2004

Il cattivo ragazzo

[fabio melandri]

Kim Ki-duk (a destra) insieme ai protagonisti del suo ultimo lavoro "Ferro 3 La casa vuota"

“Siamo tutti case chiuse, in attesa che qualcuno rompa il lucchetto e ci liberi.” Viaggio nel cinema di Kim Ki-duk, il ‘cattivo ragazzo’ amato dai cinefili.

"I miei film si basano sulla mia visione del mondo e su ciò che mi circonda, e che interagisce con me. La violenza che descrivo è uno degli aspetti della realtà, una sua espressione. Di conseguenza la violenza è un mezzo per descrivere la realtà stessa." Come all'inizio del 20° secolo Antonin Artaud sconvolse il mondo con il suo teatro della crudeltà, così l'astro nascente del cinema coreano il regista Kim Ki-duk riempie i suoi film di omicidi, stupri, mutilazioni e gesti estremi; il tutto non per una particolare

forma di sadismo ma per rappresentare un percorso in cui il dolore è il vestito in cui l'umanità deve calarsi per tornare al primordiale stadio di felicità. Elemento peculiare della società coreana - la guerra non ancora dimenticata con il Giappone, la scissione negli stati coreani del Nord e del Sud vissuta ancora "come un'indigestione, che ci disturba ma della quale non riusciamo a liberarci" - il dolore viene vissuto, sopportato, alimentato dai personaggi con un senso di rassegnata coscienza, di ineluttabilità, come fosse un passaggio obbligato per poterlo finalmente trascendere e costruirsi un proprio angolo di felicità; felicità, a volte concessa talvolta negata, intesa in maniera assai diversa dall'interpretazione occidentale.
Anomalo personaggio, arrivato al cinema quasi per caso dopo aver lavorato in fabbrica, essersi arruolato in marina e aver frequentato per due anni una istituzione religiosa per ipovedenti con l'intenzione di darsi alla predicazione. Trasferitosi in Europa per tre anni, ha viaggiato tra Francia ed Italia, appassionandosi di pittura con i quadri di Toulouse Lautrec, Edvard Munch ed Egon Schiele. Una formazione pittorica, pittore lui stesso, che è fortemente presente nel suo cinema, nella rigorosità della composizione dell'inquadratura, nella lividezza della fotografia, nella grande capacità di sintesi tra emotività europea-mediterranea ed autocontrollo orientale. Un cinema misurato ed essenziale nei dialoghi, spesso e volentieri ridotti al minimo "lI mutismo è un segnale che indica una ferita; in questo modo riconosciamo un momento del passato che ha causato un dolore. Se queste esperienze vengono dette con le parole, si rischia di diventare banali. Il silenzio crea maggiore spessore."; nei personaggi, pochi ma finemente descritti; nel sonoro con un uso parco della musica a favore di tutti quei rumori - gli elementi naturali - solitamente di sottofondo nella vita quotidiana che qui invece acquistano valenza simbolica e narrativa.
Un cinema che parla di uomini ed agli uomini attraverso l'uso dei quattro elementi della natura: l'acqua dei numerosi fiumi, laghi e mari, simboli della vita; il fuoco delle passioni - amore, odio, vendetta - che bruciano nei petti dei personaggi; la terra del mondo sensibile, simbolo dell'ordine, della coscienza, della realtà che si oppone all'aria del mondo soprasensibile, della fantasia, dell'invisibile, delle "anime".
Un cinema di personaggi border-line, uomini e donne che vivono agli estremi della società civile (gangster, prostitute, monaci, vagabondi senza fissa dimora) dagli animi tormentati, lacerazioni dello spirito che si ripercuotono sui corpi feriti, mutilati, martoriati da lame di coltelli, aghi da pesca, fili di ferro, vetri rotti, mazze da golf. Un cinema di corpi che parlano e raccontano le storie senza far ricorso a fonemi, ripresi mentre si stringono l'uno contro l'altro in violenti amplessi e svolgono le loro funzioni basiche "Mi sembra che i film europei parlino molto dell'amore fisico, ma lo fanno in maniera intellettuale. Questo perché per voi europei esiste una cesura tra l'intelletto e il corpo, e forse vi risulta difficile comprendere davvero gli aspetti fisici del corpo; noi asiatici, invece, concepiamo il corpo in una maniera meno intellettuale, così, mentre per voi c'è una netta opposizione tra fisico e mente, in Asia il corpo è un elemento più fisico che intellettuale."
Un cinema che per essere appreso appieno e quindi apprezzato, richiede un alto livello di attenzione da parte dello spettatore. Questo deve cercare di entrare in simbiosi con il film, calibrando il proprio respiro con il ritmo placido della narrazione ed i lunghi silenzi dei personaggi; lasciandosi trasportare da quelle emozioni che, con orientale pazienza, il regista costruisce poco a poco e che come fiumi carsici scorrono nella profondità dell'animo umano, per emergere all'improvviso e con veemenza non appena le nostre difese psicologiche si allentano e cedono i bastioni difensivi del nostro Io. Un cinema di confine e di esplorazione dell'animo umano; un viaggio alla luce di un tiepido fuoco che illumina la strada della conoscenza di se, del mondo, degli altri.