Sei vecchio, eppure ti senti vivo. Anzi vuoi dimostrare al mondo che sei meglio adesso di quando eri giovane e di successo. Hai una figlia, un lavoro, ambizioni, soldi. Ma una voce dentro di te ti sferza, ti mette in ridicolo, ti martella. «Sei un sopravvissuto, una nullità, non hai futuro, non tornerai mai più quello di prima». Cerchi ti opporti con la razionalità, con il buon senso. Argomenti troppo deboli. Quella voce ti convince, ha ragione: sei patetico, senza futuro, senza presente, nessuno ti ama nemmeno i tuoi cari, la figlia, la tua compagna, l’ex moglie, i colleghi di lavoro. Sei un fallito senza speranza, non puoi fare progetti, sei impotente e non solo fisicamente, se alzi la testa e guardi lontano ti prende il panico, vedi un buco nero e dentro le ossa senti il morso della solitudine.

Solo se tornassi a essere quello di prima, il supereroe capace di volare e di salvare il mondo, potresti riscattarti. E allora cosa aspetti, suggerisce la voce, apri la finestra e buttati. Tu esegui e ti ritrovi sospeso nel cielo con le ali spiegate. È l’ultima magica e inebriante sensazione di una vita durata fin troppo a lungo.

“Birdman” è un film a chiave dove attraverso la crisi di un attore al crepuscolo, si racconta dall’interno della mente la depressione e i suoi fantasmi. Il regista Alejandro González Iñárritu per rendere implacabile questo percorso disgregativo della personalità, ricorre all’uso esasperato del piano sequenza, che incalza e non lascia respiro al protagonista e allo spettatore. È il punto di vista della voce che anche quando non parla è sempre presente, ti controlla, ti giudica, ti studia e sulle tue debolezze si prepara i discorsi.

“Birdman” è un film sgradevole, fastidioso, estremamente efficace e a suo modo poetico.